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 2019  giugno 23 Domenica calendario

Biografia di Ena Marchi raccontata da lei stessa

«Mi ero appena laureata a Napoli in filosofia: una sera a Positano incontrai un uomo che viveva negli Stati Uniti e dopo un paio di mesi lo raggiunsi. Prima, per fortuna, avevo fatto domanda per una borsa di studio in Francia; quando me l’hanno assegnata, un anno dopo, sono partita per Parigi. Avrei dovuto restare per nove mesi: ci sono rimasta tredici anni e mezzo». Ena Marchi si occupa di romanzi; forse per questo la sua è una vita da romanzo. La storica editor della narrativa francese di Adelphi racconta con emozione il suo percorso straordinario: «Avevo venticinque anni e dopo il primo anno di dottorato ho fatto ogni genere di lavoro, per non tornare a Napoli. Ho fatto traduzioni, ho insegnato all’Università. Ho persino fatto da interprete a Cicciolina».
Davvero? Ci racconti.
«Avevo bisogno di soldi perché in febbraio, allora, si pagavano le tasse in Francia. Mi chiamarono, disperati, da un’agenzia: avevano bisogno subito di un’interprete che seguisse un parlamentare italiano che non parlava né francese né inglese ma solo italiano e ungherese. Era Ilona Staller. Le sono stata dietro per tre giorni accompagnandola in televisione, alle interviste, dappertutto. Mi sono divertita, anche se non posso raccontarle i dettagli. Se un giorno decidessi di scrivere narrativa, sarebbe un racconto interessante».
E poi che è successo?
«A un certo punto per puro caso, perché frequentavo un giovane conservateur, come si dice in francese, della Biblioteca Nazionale, un giorno di agosto ho conosciuto Roberto Calasso. Erano i primi Anni Ottanta, lui stava scrivendo il suo primo libro importante, La rovina di Kasch. Dopo un po’ feci la prima prova di traduzione».
Come andò?
«Un disastro, fui bocciata. Il grande Piero Bertolucci mi disse che non andava bene. Non solo: disse che la traduzione non faceva per me, che ci avrei soltanto perso tempo, salute e denaro».
Cosa le fecero tradurre?
«Un romanzo epistolare della seconda metà del Seicento, di Edme Boursault, Lettere di Babet: uno scambio di lettere tra un letterato e una signorina borghese che cercava di dimostrarsi ancora più bas-bleu delle bas-bleu, più preziosa delle preziose. Una lingua difficilissima. Fu il mio rito iniziatico. Ha presente, Un uomo chiamato cavallo?».
Certo. Ma poi andò meglio?
«Arrivarono due libri di Henri-Pierre Roché che ho amato moltissimo, Jules e Jim e Le due inglesi e il continente da cui François Truffaut aveva tratto dei film. Nel 68 avevo 17 anni: Truffaut e Jean-Pierre Léaud facevano veramente parte della mia mitologia personale. Mi ero studiata tutte le correzioni di Piero Bertolucci – lui è stato uno dei pilastri dell’Adelphi, per moltissimi anni, insieme a Calasso e Luciano Foà – ho imparato a tradurre».
E quando è avvenuta la vera svolta?
«Calasso mi ha detto: Basta, vieni a Milano a lavorare con me. E io ho risposto di sì. All’inizio è stato spaventoso. Quando sei a Parigi e hai trent’anni sei convinta che sarai sempre giovane e vivrai in eterno questa vita leggera, frizzante, effervescente; anche se non hai una lira in tasca, ti diverti. A Milano, nel 1990, era dura; adesso la città è tutta cambiata. Ecco, vorrei avere adesso trent’anni a Milano».
Di cosa si è occupata da allora?
«Di tutti i libri tradotti dal francese, soprattutto la narrativa – e, quindi, tutti i Simenon, che ho curato insieme a Giorgio Pinotti. Mi occupo anche dei manoscritti italiani che arrivano, li leggo e li faccio leggere. E naturalmente mi è capitato di occuparmi di altro: libri ungheresi, per esempio quelli di Sándor Márai; libri giapponesi, Yoko Ogawa; Emil Cioran tradotto dal romeno».
Quali sono gli autori di cui è più fiera?
«Ce ne sono alcuni, stranieri e italiani, per i quali mi sono in qualche modo battuta, di cui ho caldeggiato la pubblicazione presso il nostro presidente e direttore editoriale, Roberto Calasso. Una di queste è Irène Némirovsky, un’autrice che sono ben felice di aver portato in Italia, un altro è Emmanuel Carrère. Sono felice che abbiamo ripreso Pierre Boileau e Thomas Narcejac».
E gli italiani?
«Giuseppe Ferrandino, con il suo romanzo Pericle il Nero. Un romanzo duro, molto noir (e noi non ne pubblichiamo molti) che per fortuna a Calasso piacque. Un altro autore a cui sono molto legata è Andrej Longo, che in qualche modo ho portato io. Con i francesi lavoro quasi solo con morti».
E i viventi?
«Sono pochi: c’è Carrère, con cui c’è una bella amicizia – come con Yasmina Reza, d’altronde. Milan Kundera, invece, è una persona molto appartata. Gli autori, quelli che sono attenti alla qualità delle traduzioni, si fidano: non è sempre facile, ma quando la mediazione funziona è molto gratificante».
E non traduce più?
«Adesso non ho tanto tempo. Ci sono libri, però, che ho tradotto con entusiasmo. Balzac e la piccola sarta cinese, scritto da un cinese in francese, Dai Sijie. E Simenon, naturalmente, poiché ne pubblichiamo parecchi. Io trovo i traduttori, rivedo le traduzioni, preparo le presentazioni per le reti di vendita. È un grosso lavoro. La Adelphi ha ripreso i diritti per i romanzi senza Maigret nel 1985 e con tra il 92 e il 93. Ne facevamo uscire quattro all’anno. Non era facile trovare il tempo; e allora ho tradotto cose piccole di Simenon, per esempio La pazza di Itteville e mi sono divertita molto. Ma, a proposito di Maigret...»
Prego, mi dica.
«Quando ero all’università, poiché non mi piaceva accettare lavori di babysitter come le mie amiche, per racimolare dell’argent de poche, ho fatto la figurante alla Rai, anche in qualche Maigret con Gino Cervi».
E ancora non sapeva che avrebbe curato i libri di Maigret, naturalmente.
«Ovvio. Ma non ho fatto solo la figurante. A un certo punto, alla Rai di Napoli ho avuto anche una promozione: sono diventata animatrice di pupazzi. C’era una trasmissione per bambini, Il dirigibile, e tre persone dietro il pupazzo – credo che fosse un coniglio – con un cappuccio nero tipo Ku Klux Klan, una muoveva i piedi, un’altra le mani e la terza il busto e la bocca. Oggi, con l’elettronica, queste cose non esistono più».