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 2019  giugno 23 Domenica calendario

I 90 anni di Natalia Aspesi

Ti posso chiamare per gli auguri?». Nel salutarla sulla porta, l’amica le chiede cautamente come regolarsi domani, giorno del novantesimo compleanno. «Cara, ti ringrazio ma non voglio telefonate. Zero. Sono due mesi che progetto come nascondermi». Una mattina a casa di Natalia Aspesi, tra centinaia di libri catalogati, le pareti di vetro sul terrazzo, la scrivania disegnata da Lloyd Wright, l’altro scrittoio dedicato alla lettura, ora sovrastato da una pila di volumi sui preraffaelliti, argomento del suo prossimo pezzo. Perché vuoi nasconderti? «Compierenovant’annimi sembra impossibile. Qualsiasi festeggiamento mi fa l’effetto della prova d’un funerale. Conla differenza che al funerale non ci saròequindi mene frego. Mentre oggi cisono». Ma la vecchiaia non è anche un privilegio? «Forse sì, ma hai la certezza di essere fuori da qualsiasi cosa. E poi interviene ancheilpudore: i vecchi oggi fanno ribrezzo alla gente. Senza contare che quando dici a te stessa diavere novant’annisai anchechetra un minutopuoi ritrovarti con la lingua di fuori e tra un mese renderti defunta. Nonè cheallamiaetàsi muore ogni tanto. Anovant’anni si muore sicuro». Tu dici che alla tua età si è fuori dalle cose. Non è questo il tuo caso. «Ciòchemi tieneinvita èuna forma di follia. In vecchiaia ciascuno la coltiva a modosuo. Lamia pazzia è la politica. Provotale disgusto e sbigottimento per lacondizione del nostroPaese che la miaunica consolazioneè pensare:per fortuna quandoci sarà dinuovo il fascismoio non cisarò». Non sei l’unica della tua generazione a pensarla così. «Io ho vissuto il fascismo in una famigliamodestissimaenon so per quale ragione antifascista. Ricordo mia madremaestraelementareche ascoltavaRadioLondra conuna coperta in testa per non farsi sentire dai vicini. E alla cerimonia del sabato mimandavacon lescarpemarroniper rovinare la sfilata. Tutte stupidaggini che peròfanno capirel’atmosfera che respiravo in casa». Tu racconti di essere stata una bambina timida. Possibile? «Sì, timidissima. Ho patito la guerra, la fame,la povertà: è naturale che un po’ di impaccio ti rimanga. Poi il mestiere mihacambiato». In che modo? «Ogginonhopiùpaura diniente. Mi ricordoi primitempi al Giorno, il giornale progressista diretto da Italo Pietra. A parte che allora era un lavoro daricchi— ben pagato,macchina con l’autista, riconoscimento sociale – ogni voltache partivo per un servizio mi dicevo:speriamo che l’auto si fermi oppuresperiamo di non trovareil paese. Poiquando arrivavosul posto e venivoinghiottita in cose tremende comeammazzamenti,emagarii genitori dell’assassino mi accoglievano “sa,è tanto buono”, la timidezza improvvisamentescompariva». Poi però le ansie sono passate. «Non credere. Se devo intervistare qualcuno,la timidezza non c’èpiù. Ma quando devo scrivere è rimasta l’ansia, comese fosse laprima volta. Rileggo piùvolteemi dico cheporcheria, ma nonc’è piùtempo percorreggere.Ho sempre lacertezza che potrei farlo meglio,ma forseè un attodi presunzione». Come nascono i tuoi articoli? Bocca diceva che i suoi erano già nella macchina da scrivere. «Eio li trovo nel mio computer. Quando misiedoalla scrivanianon so maicosa scrivere,nonho memoriadi niente. Poiprovo unpaio di attacchi e mi ricordo tutto. Non so perché. È il computerchemisalva». Deve esserci un negozietto speciale che vi ha riforniti entrambi. A proposito di Bocca, come sono stati i vostri rapporti al “Giorno”? «Qualchevolta miriprendeva con affetto: Natalia non scrivi brutti articoli ma il tuo italiano è scadente. Fatti correggere dalla Silvia. Era fissato con suamoglie, Silvia Giacomoni. Voleva ancheche mi vestissi comelei, austere gonne alpolpaccio in Principe di Galles,mentre io indossavo improbabiliminigonnecon lemie bruttegambe». Ma a Bocca che cosa importava del tuo modo di vestire? «Una volta melodisse: eramolto gelosodelmio modo di lavorare. Probabilmente ioscrivevo cose che apparivanoassurde alui cheeraun maestromaancheunuomo tradizionale. E forse mi guardava incuriosito perché ero spiritosa, chissà. Miapprezzavaemi detestava». Da dove nasce la tua ironia? «Dalla mia famiglia. Io sono cresciuta senza il padre, perso a quattro anni, ma la famiglia di mia madre era numerosa e festosa, soprattutto i maschi erano superficialoni, giocavano a carte, magari mandavano a monte le finanze di casa ma ridevano sempre. Io ho ricordi di infanzia allegri. Eravamo un mondo miserando, ma nessuno di noi immaginava che ne esistesse un altro, ricco e privilegiato». Il fatto di essere cresciuta senza padre ha contato? «Non lo so, probabilmente se ci fosse stato sarei stata diversa. Ma mia madre diceva di portare la sua vedovanza “come la corona di una regina”, si sentiva fortunata rispetto a mogli tediate da mariti tremendissimi. Così sono cresciuta con l’idea che non aver marito era la soluzione della vita. E non mi sono mai sposata». Tu dici sempre che ti ha salvato il cinismo. È un altro dei tuoi vezzi. «No, davvero il cinismo mi ha salvato la vita. Quando è morto l’Antonio mi sarei dovuta disperare. Avevo più di ottant’anni e finiva la mia vita di coppia che era stata bellissima. E invece no. Mi è spiaciuto, questo sì». Tu ti sei dovuta far largo da sola in un mondo maschile. «Purtroppo non ho mai potuto dire me too, nessuno mi ha mai molestato in cambio della carriera. Però ho imparato subito un’arte preziosa che è l’ipocrisia. In redazione ho capito che dovevo rivolgermi ai colleghi come fossero delle divinità. Aiutami tu che sei così bravo, salvami con la tua intelligenza. Ci cascavano sempre». Ti sei salvata con la tua bravura. «In realtà sono sempre stata molto superficiale. Io cercavo di raccontare le cose come le vedevo, non ero provvista di chissà quali strumenti culturali. E invidiavo Camilla Cederna e Lietta Tornabuoni che erano più brave di me». Anche questo è un altro vezzo. Delle tue inchieste sul “Giorno” e delle tue cronache su “Repubblica” sono pieni i libri di storia. «Sono state Camilla e Lietta a insegnarmi una coscienza civile. Mi fecero capire che la cronaca aveva un significato più alto del fatto stesso, che aveva un inizio, una ragione e una soluzione che alla fine è sempre politica». Eravate amiche? «Sì, Camilla mi incoraggiava a scrivere. Lietta mi ha insegnato il metodo – prima di scrivere un nome controlla se è corretto! – io ero molto disordinata. Lietta era una donna di una generosità pazzesca che ha sacrificato la sua vita per maschi che non la meritavano. Grande classe, bravissima, ma infelice». Con Oriana Fallaci non c’era feeling. «Mi detestava. Una volta approdai a Saigon da un festival di Sanremo, dettaglio che la faceva inorridire. Mi trattò con una supponenza feroce. “Ma chi è quel cretino che ti ha mandato qui? Non conosci neppure il nome dei fiumi del Vietnam...”. In quel caso però aveva ragione». Tu parli di te con un’umiltà inimmaginabile in un tuo collega di pari rango. «Ma i maschi sono convinti di essere i più bravi. La competizione nel giornalismo non è mai tra uomini e donne, ma solo tra uomini o solo tra donne. Io chiedevo di essere paragonata a Bocca, anche a costo di perdere la gara». Perché i Giorgio Bocca e le Natalia Aspesi non esistono più? «Perché non c’è più bisogno della cronaca che facevamo noi. Oggi le notizie vengono dette in tre righe, non più raccontate. Alla gente non interessa più leggere quei lunghi articoli che pulsavano di vita, di storie, di personaggi. Ora ognuno s’informa come vuole. E sa le cose come vuole saperle». Qual è stato il momento professionale più fortunato? «Quando fui chiamata a Repubblica da Eugenio Scalfari, alla metà degli anni Settanta. Il mondo aspettava solo di essere raccontato. E io affiancavo alla fortuna professionale la mia felicità in amore». Fu allora che incontrasti Antonio? «Sì, siamo stati trentotto anni insieme. Io vivevo allora con un compagno, Giorgio, e lui con la moglie e i due bambini. Fu la moglie a cacciarlo di casa, mettendogli fuori le valigie con sopra il mio libro Vivere in tre: aveva capito che parlavo anche di noi. Ma se non fosse stato lei a mandarlo via, lui non se ne sarebbe mai andato: gli uomini sono così vili! Eppure Antonio mi amava moltissimo, anche se non ho mai capito perché». Ma che dici? «La moglie era bella, più giovane di me, di buona famiglia. Io ero l’opposto. Credo che si sia innamorato di me perché lo facevo ridere. E poi per delle ragioni che non posso dire». Hai avuto una vita felice? «Se la guardo oggi, dico che sono stata molto fortunata. Ma ci sono stati momenti di sofferenza. E ho patito molto anche per amore: alla nostra generazione gli uomini hanno dato un sacco di fregature». Se oggi potessi richiamare in vita una persona con cui festeggiare i tuoi 90 anni? «La mia mamma. È stata una eroina. Mi ha aiutato a superare tutto e forse non l’ho amata abbastanza. È a lei che continuo a raccontare la mia vita. Sai una cosa?». Cosa? «Quando muoio vorrei non si sapesse. Vorrei scomparire e basta. Puff. Senza necrologi noiosi, coccodrilli, cerimonie inutili. Tutto ormai svanisce in pochi secondi. E c’è sproporzione tra l’intensità dell’emozione istantanea e la memoria breve. Molto meglio sparire all’improvviso. Natalia non risponde più al telefono. E poi magari tra vent’anni, imbattendosi in qualche articolo, qualcuno dirà: ti ricordi?».