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 2019  giugno 22 Sabato calendario

Ritratto delle due Elene di casa Savoia

(questo articolo uscì sul Giornale nel 1987)
Le due Elene di casa Savoia, la montenegrina che fu regina d’Italia e la discendente del re di Francia che fu moglie di Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, comandante della III armata nella Prima guerra mondiale, entrarono quasi contemporaneamente nella storia della dinastia. Coetanei erano l’erede al trono Vittorio Emanuele e il capo del ramo cadetto Emanuele Filiberto, e coetanee erano le principesse. Ma le analogie si fermano qui, perché le due spose dei Savoia erano, per fisico e per temperamento, quanto di più diverso si possa immaginare.
Sia il matrimonio di Elena, sia quello di Hélène (chiameremo così la principessa francese per distinguerla dall’altra, e anche perché così amava essere chiamata, orgogliosa come era del suo lignaggio) durarono finché morte separò lui da lei. Matrimoni solidi, dunque, ma non simili. Quello del Duca d’Aosta, nato sotto il segno di una vera, personale attrazione, fu, come si direbbe oggi, un matrimonio sereno e insieme «aperto», con lunghe e non sofferte separazioni, e con reciproche benevole tolleranze, perfino – stando ai pettegolezzi – con qualche risvolto pochadistico; quello di Vittorio Emanuele, nato sotto il segno della ragion di Stato, fu un matrimonio «borghese», affettuoso e intimo. Gli Aosta amavano il fasto, la compagnia, la mondanità; i Savoia del ramo regnante amavano la quiete familiare. Hélène, che era altezzosa, non si peritava di riferirsi a Elena definendola ma cousine la Bergère, mia cugina la pastora: per l’ascendenza un po’ rustica della montenegrina. Elena non ricambiò mai queste frecciate. Una regola non scritta ma tacitamente osservata in passato avrebbe voluto che Vittorio Emanuele si sposasse per primo, così da garantire subito ai Savoia un erede. Ma il piccolo principe (un metro e 54) riluttava a farsi imporre una moglie. Così fu preceduto da Emanuele Filiberto, bello, alto, aitante, che smaniava per condurre all’altare la sua francese. La quale era poi una francese somigliante tale e quale a una inglese, perché cresciuta nell’esilio d’Oltremanica.
Sarà vero che Emanuele Filiberto si innamorò di Hélène vedendo una fotografia? La storia sa molto di dolciastro e di romantico costruito. Ma fu raccontata in questi termini da Alessandro Guiccioli, deputato della destra ed ex sindaco di Roma. «L’origine dell’amore del Duca d’Aosta per la principessa corrisponde al temperamento romantico e bizzarro di lui. Una volta a Firenze la baronessa d’Hooghworst gli disse scherzando: Vostra altezza dovrebbe sposare la principessa Hélène d’Orléans che è così bella e gentile. Il Duca, fattosi mostrare il ritratto, si accese per lei di uno strano improvviso ardore così che quando morì il conte di Parigi (l’Aosta) fece sapere al re che avrebbe desiderato d’essere mandato a rappresentarlo ai funerali. Ma la principessa, essendo in gran lutto, aveva il volto coperto da un velo nero: e il principe non riuscì a vederla. Per un istante solo, durante la funzione religiosa, essa alzò il velo: quell’attimo bastò per fomentare nell’animo del Duca il sentimento già concepito. Subito egli chiese di sposarla».
Dai ritratti che ci sono stati tramandati non si direbbe che Hélène avesse un viso di tale soavità e venustà da folgorare un esperto di belle donne come Emanuele Filiberto, al cui temperamento si attagliavano pochissimo gli aggettivi romantico e bizzarro. Il fisico di Hélène, e anche il suo volto, erano indubbiamente racés, da signora di gran lignaggio, alta e magra, occhi chiari, una faccia lunga, dolce, ma alquanto cavallina, modi impeccabili. Era intelligente, ambiziosa, reazionaria. La famiglia era tra le più gloriose d’Europa, nessun trono poteva gareggiare con quello dei reali di Francia in storiche grandezze e tragedie. Tuttavia gli Orléans vivevano nell’esilio inglese da quasi mezzo secolo, a Stowe House, e Hélène aveva preso modi britannici. Amava i cavalli, i viaggi, il tè. Non era certo sexy, ma aveva un suo fascino androgino che con il trascorrere degli anni si trasformò in legnosità. Frequentava la famiglia reale inglese, trascorreva le vacanze al castello di Sandrigham, aveva avuto una passioncella da adolescente per il primogenito del Principe di Galles (poi Edoardo VII) Alberto duca di Clarence, morto prematuramente: di lui si sospettò, in seguito, probabilmente a torto, che fosse Jack lo squartatore. Evitato questo matrimonio, ne evitò un altro – che sarebbe stato ugualmente infausto – con lo zarevich Nicola, il futuro Nicola II trucidato a Ekaterinburg. Ma sia per il pretendente inglese, sia per il russo, c’era l’ostacolo della differenza di religione, sulla quale gli Orléans non erano disposti a transigere. Così le toccò il bel Duca d’Aosta, figlio di quell’Amedeo – fratello di Umberto I – che per due anni (dal 1870 al 1872) era stato re di Spagna.
Era proprio solo amoroso lo strale che aveva colpito il Duca? Le menti maliziose non mancano mai, e ve ne fu più d’una che pensò alla dote di questa discendente degli Orléans. La dote in senso stretto, ossia i quattrini. In reali di Francia avevano fama d’essere immensamente ricchi. Quando invocò da Umberto I l’autorizzazione a chiedere la mano di Hélène, Emanuele Filiberto ottenne dapprima un rifiuto. La scelta, in quel clan di legittimisti e papisti, sembrava infelice: la Francia orleanista aveva sollevato fiere proteste quando il Papa era stato privato del potere temporale. Bene o male le opposizioni furono superate ma non le differenze e le perplessità. Allorché il conte Gianotti comunicò a Francesco Crispi, presidente del Consiglio, che il Duca si era fidanzato, la risposta fu rozza ma esplicita: «Fate in modo che la Francia non ci rompa i coglioni». Ma poco mancò che tutto andasse a monte per le insinuazioni di un giornale parigino, il Gaulois, organo ufficioso del legittimismo, sulle cui colonne si poteva leggere che Emanuele Filiberto sarebbe rimasto erede al trono perché Vittorio Emanuele «era affetto da impotenza fisica e morale». Vittorio Emanuele finse di non aver saputo nulla dei pettegolezzi, che si sospettava fossero stati attizzati dagli Aosta: e fu testimone alle nozze celebrate religiosamente il 25 giugno 1895 a Kingston-on-Thames e ripetute civilmente al Quirinale il 7 luglio. Arrivato a Londra con un paio di giornate d’anticipo, l’erede al trono d’Italia si dedicò alla prediletta numismatica, e parlò a lungo di monete in una lettera al colonnello Osio, limitandosi, per il matrimonio, a queste righe: «Tutto è proceduto benissimo, né si è dovuto lamentare inconveniente alcuno, gli orleanisti sono stati prudenti e calmi».
I begli occhi
della montenegrina
A quella lingua lunga del Farini, presidente del Senato, Hélène decisamente non piacque: «È un vero stecco per magrezza e rigidità. Grossi occhi chiari, capelli biondo rossicci, viso ovale allungatissimo che s’allarga sulle mascelle. La scelta, non felice politicamente, non lo è neppure fisicamente. Quella figura nordica, fredda, non eserciterà mai un fascino sulle nostre genti. Baccelli, Saracco, Biancheri, Crispi giudicano come me. Quest’ultimo, alludendo a una sposa da lui proposta al principe di Napoli (Vittorio Emanuele ndr) dice a me: La mia montenegrina era meglio. Con noi scambia un moto del capo che vorrebbe essere un inchino. Il sorriso di lei non è che una contrazione muscolare non rispondente a nessun sentimento interno».
Ecco dunque entrare in scena la montenegrina. Vittorio Emanuele era un testone: gli piaceva restare celibe, e la madre Margherita se ne crucciava: «Mio figlio non si sa decidere. Senza mancarmi (di rispetto, ndr) mi rispose a questo proposito una lettera vivace. L’anno prossimo (1896, ndr) tornerò all’assalto per davvero. In certe cose mio figlio è un selvaggio, per certi gusti. Certo non sceglierà una donna né stupida né di condizione non adeguata, ma quanto al fisico vi è da attendere qualunque stranezza. Un anno, alle corse, si era infervorato d’una signora piccola, brutta, larga, un vero gnomo». Crispi stava tuttavia ordendo una sua rete per catturare il piccolo principe cocciuto. Dai rappresentanti diplomatici si era fatto indicare le potenziali candidate, ed era rimasto particolarmente interessato al rapporto di Sanminiatelli, rappresentante a Cettigne, capitale del Montenegro: «Centocinquanta case allineate su un’unica fila e abitate da circa duemila persone tra le quali non c’era un medico né un farmacista». Sullo staterello vassallo della Russia, centocinquantamila abitanti in tutto, regnava Nikita I, un omaccione gagliardo e astuto che sapeva spillare quattrini alle grandi potenze e ottenere dallo zar di Mosca benefici e protezione per la sua prole: che era numerosissima. Elena (o Jela come veniva familiarmente chiamata) era la sestogenita del gospodaro Nikita il quale usava dire che «noi (lo zar di Mosca e lo zar di Cettigne) abbiamo una popolazione di centocinquantamila montenegrini e 120 milioni di russi». Elena studiò nel collegio Smolny per fanciulle nobili di Pietroburgo, o con più esatta dizione «società di educazione imperiale per le fanciulle di buona famiglia». La disciplina era rigida, con la sveglia alle 6 d’estate, alle 7 d’inverno, con sette ore di studio e tre scarse di ricreazione. Elena era buona, remissiva, ma non tonta. Scriveva belle lettere in francese, e in una di esse confessava di avere continuamente bigiato le lezioni a Smolny e di averci imparato ben poco. Era una ragazza molto attraente, alta un metro e 77 centimetri, 20 centimetri abbondanti più di Vittorio Emanuele: aveva uno splendido portamento, capelli bruni molto folti, un viso dolce e occhi, come notò qualcuno, di «daina ferita». Quando a Mosca frequentava i balli della nobiltà suscitò l’ammirazione di un giovane ufficiale finlandese (ma la Finlandia era allora una provincia russa), il barone Carl von Mannerheim, che fu poi condottiero delle truppe del suo Paese nella guerra contro l’Urss del 1939. Tra i due l’amicizia durò fino alla morte del maresciallo finlandese che per ogni onomastico di Elena le fece mandare, dovunque fosse, un mazzo di fiori.
Pronubo Crispi, Vittorio Emanuele vide una prima volta Elena a Venezia (per un caso molto preordinato), ma non sembra ne conservasse intenso ricordo. Quando però, nella primavera del ’96, fu mandato a Mosca per l’incoronazione di Nicola II, e vi rivide la montenegrina «alta, vivace, allegra, per nulla timida, con due occhi stupendi», prese la sua decisione. Elena seppe come conquistarselo: fu affettuosa con discrezione, materna quel tanto che occorreva con un musone sospettoso. Vittorio Emanuele annotò in inglese sul suo diario: Giugno 1 Mosca We meet! – Giugno 5 Mosca I decide – Giugno 6 Mosca The photo. C’incontriamo, io decido, la fotografia. Questo innamorato non erompeva in confessioni appassionate, il suo stile era piuttosto quello del veni vidi vici, ma esprimeva chiaramente i suoi sentimenti.
Il 24 ottobre 1896 Vittorio Emanuele ed Elena del Montenegro (Curtatone e Montanara nelle beffe dei maligni) diventarono marito e moglie. In precedenza la fidanzata aveva abiurato alla sua religione. Lo zar (quello grande, di Mosca) aveva dato in dote a Elena centomila lire che re Umberto destinò ai poveri della capitale. Di tasca sua il gospodaro Nikita fissò una rendita di duemila lire. Cominciò così un’unione complessivamente felice, per quanto riguardava il rapporto a due, e segnata da continue tenerezze del principe – e poi del re – verso la sua Jela: il cui nome diede anche al suo yacht. Vittorio Emanuele, quest’uomo arido, ebbe anche impeti di gelosia, e momenti di depressione. Ci si può chiedere se Elena l’abbia amato quanto lui amò lei. Difficile rispondere perché per la bella montenegrina quel matrimonio che rinvigoriva il sangue un po’ esausto dei Savoia fu anche un avanzamento sociale.
Hélène aveva più di un motivo d’essere indispettita. Confessatamente o no, aveva sperato che il principe di Napoli, così poco attraente e così poco galante, rimanesse scapolo. Ora restava agli Aosta un’unica chance, per ereditare un giorno il trono: che l’erede fosse davvero impotente, o almeno sterile (non si usava supporre lo fosse Elena, con quel suo impianto da sana ragazza fatta per procreare). Impotente non era certo Emanuele Filiberto, già collaudato in molte alcove. Il 21 ottobre 1898 nacque a Torino – dove il Duca d’Aosta, divenuto il generale di brigata, comandava l’artiglieria – Amedeo Umberto Isabella Luigi Filippo Maria Giuseppe Giovanni di Savoia duca delle Puglie, futuro Vicerè d’Etiopia. Gli Aosta avevano un erede. «Noi Savoia siamo in tanti», dirà Emanuele Filiberto sfidando possibili altri attentatori, dopo l’assassinio di Umberto I a Monza, nel 1900. Ma i figli poi arrivarono. Emanuele Filiberto fu l’erede presuntivo al trono fino al 1904, quando venne alla luce, dopo le sorelle Jolanda e Mafalda, il principe Umberto. Decisamente il ramo cadetto era destinato a rimanere tale.
Capodimonte
il secondo Quirinale
Elena fece della sua reggia – e al Quirinale preferì Villa Savoia – una casa borghese; Hélène fece della Reggia di Capodimonte a Napoli, dove si era installata con il marito comandante del X corpo d’armata, il vero Quirinale, un centro di mondanità, di sfarzo, retto da una rigida etichetta. La duchessa era molto spesso in Africa o in altre contrade remote, per lunghissimi viaggi motivati da una presunta salute cagionevole, dei quali ha lasciato memoria in libretti non insignificanti. Elena fu riservata, Hélène più presenzialista. Durante la Prima guerra mondiale la regina si prodigò alla sua maniera discreta, imitando l’understatement del marito, il «regale fotografo»: Hélène girava per ospedali con il suo piglio autoritario distribuendo ramanzine – meritatissime per la negligenza con cui si accudiva a malati e feriti – e facendosi temere anche più del Duca comandante della III armata. Elena, che non sapeva di politica, e non pretendeva di impicciarvisi, diede al fascismo quel tanto di sostegno formale che era implicito nella sua posizione: non mancò le cerimonie che richiedevano la sua presenza, dalle insignificanti al dono della fede alla Patria, nel periodo delle sanzioni per la guerra d’Etiopia. Ma non portò in ciò alcuno slancio, estranea com’era ai grandi giochi del potere: ai quali pagò un prezzo doloroso, con la sconfitta e la drammatica fuga a Brindisi dopo l’8 settembre 1943, con la morte della figlia Mafalda in campo di concentramento tedesco, con l’esilio. Il 28 dicembre del 1947 Vittorio Emanuele III si congedò dalla vita, e dalla sua compagna. Poco meno di 5 anni dopo, il 28 novembre 1952, morì anche Elena, a Montpellier.
Hélène fu invece – ancora più del marito – nazionalista e fascista, con gesti di inequivocabile favore per l’impresa dannunziana di Fiume e per la presa del potere di Mussolini. Nitti, presidente del Consiglio nel 1919 e 1920, minacciò provvedimenti contro di lei. «È accaduto un fatto spiacevolissimo – scriveva al ministro degli Esteri, Tittoni -: la Duchessa d’Aosta in veste e con abito di Dama della Croce Rossa è stata a Fiume e ha visitato l’ospedale militare dove vi era la salma di un soldato ucciso (un legionario di D’Annunzio, ndr), perché voleva varcare le nostre linee. Ha poi visitato D’Annunzio... La miglior cosa che possano fare i Duchi d’Aosta è lasciare per qualche tempo l’Italia». E al Duca lo stesso Nitti scrisse: «Vorrei chiederle che preghi Sua Altezza Reale la Duchessa d’Aosta di mantenere il contegno più sereno che sia possibile e che non si rechi mai più in zona d’armistizio e nelle zone redente».
Emanuele Filiberto, divenuto il monumento di se stesso, morì nell’estate del 1931, e i funerali – prima a Torino, poi nel sacrario di Redipuglia – furono della massima solennità. Il maresciallo Caviglia, che aveva le sue perfidie, e che al comandante della III armata non aveva mai tributato simpatie, lasciò una istantanea della Duchessa alla cerimonia di Torino. «Era appoggiata alla ringhiera della Gran Madre di Dio presso il cancello. Vestita di nero, alta, in quella posa pareva la statua del dolore. Andai ad ossequiarla: è una brava artista».
Hélène sopravvisse vent’anni al marito. Sempre un po’ eccentrica, sempre impeccabile nell’assolvimento dei suoi doveri. Mussolini la stimava, ma trovava spigolose le conversazioni con lei: sempre disposto a riceverla, sbuffando. Era pronta ad accorrere nei momenti difficili al fianco dei suoi reali congiunti, cui pure non la legava vero affetto, tranne che per Maria José. Era sul molo di Napoli a salutare Vittorio Emanuele III e la regina Elena quando si imbarcarono per l’esilio egiziano. Lì le due Elene si videro per l’ultima volta. Visse a lungo nella Reggia di Capodimonte; e, poi, quando fu proclamata la Repubblica e quella residenza non le fu più concessa, in un albergo sul mare. Aveva perduto, prima di morire, i figli Amedeo e Aimone con i quali aveva del resto mantenuto contatti epistolari più che personali.
Accanto a lei, per lunghi anni, era stato accompagnatore, poi marito, il colonnello dei reparti sahariani Otto Campini, appartenente a una famiglia di ufficiali piemontesi. Bell’uomo – anche se alquanto più basso dell’altissima Duchessa – e di vent’anni più giovane di lei, il colonnello l’aveva accompagnata in molti viaggi, con discrezione. La consuetudine era diventata affetto, l’affetto era sfociato nel matrimonio. Campini fu assai riservato. Mai lo si vide in una cerimonia accanto all’orgogliosa discendente dei reali di Francia. Negli ultimi anni la Duchessa, ha ricordato Bertoldi, «scriveva qualche lettera alle sorelle e leggeva il solo giornale che a suo giudizio meritasse di essere letto, l’Osservatore Romano. Ogni tanto, e per periodi molto brevi, riceveva le nuore e i nipoti».