Corriere della Sera, 22 giugno 2019
Tutti i record di Meryl Streep
Per lei hanno creato un neologismo: streepian, specie di incrocio tra controllo, intensità e precisione tecnica. E i suoi fan si fanno chiamare streepers. Non so se esiste un’altra attrice (o attore) che possa vantare simili appendici linguistiche, anche perché è difficile immaginare chi li meriti più di Mary Louise Streep sposata Gummer (da 41 anni, un altro primato), recordwoman neo-settantenne festeggiati ieri, 22 giugno, l’unica ad aver conquistato ventuno nomination agli Oscar – al secondo posto, staccatissimi, Katherine Hepburn e Jack Nicholson, con dodici —, tre delle quali diventate statuette. Cui vanno aggiunti, per le statistiche, trenta nomination ai Golden Globe (otto sono diventate premi, più uno alla carriera), una Palma a Cannes, un Orso a Berlino, due David e un Marc’Aurelio a Roma e un altro numero spropositato di premi e riconoscimenti in giro per il mondo, compresa la Legion d’onore del governo francese.
Una specie di gratificante contrappasso per l’attrice che ha costruito la propria carriera sulla rinuncia all’alone mitico che contraddistingue le star (gli storici del cinema parlano di «divismo semplificato» per indicare la scelta di annullare la distanza che separa il divo dall’orizzonte dello spettatore comune) e che ha sempre privilegiato la vitalità dei suoi personaggi alla loro supposta verità, per offrire al pubblico la possibilità di identificarsi non tanto con il ruolo quanto con le passioni e i sentimenti che vi palpitavano dentro. O almeno di ammirarli, se sceglieva di interpretare parti non proprio simpatiche come la Miranda Priestly di Il diavolo veste Prada o la Mary Fisher di She-Devil – Lei, il diavolo. Niente di più lontano, per Meryl Streep, dei tormenti del metodo Stanislavskij, quelli che ti fanno lavorare tre mesi da tassista per poterlo interpretare. Per lei c’è solo l’impegno, la dedizione, la costanza, quella che l’ha fatta esercitare sei ore al giorno per otto settimane col violino, così da essere pronta a diventare Roberta Guaspari in La musica del cuore (e portar via la parte a Madonna).
E pensare che il primo sogno della bambina Streep era stato quello di diventare cantante lirica, impegnata già a 12 anni a studiare con una insegnante privata. Senza comunque le manie del genietto precoce, se a sedici anni era con altri 55mila coetanei allo Shea Stadium di New York ad applaudire i Beatles. Con un cartello su cui aveva scritto «I Love Paul» (lo confesserà lei stessa a McCartney quando nel 1990 verrà invitata a consegnargli il Grammy Lifetime Achievement). E comunque, che avesse davvero talento musicale lo dimostrerà a tutti quando sarà bravissima nello stonare a tono in Florence, ruolo ben più complicato di quelli, più tradizionalmente canori, affrontati anche per Radio America (l’ultimo film di Altman), il musical Mamma mia! o il melo-rock Dove eravamo rimasti.
La scoperta della recitazione arriva durante gli anni al Vassar College cui seguirà la Yale School of Drama (compagna di corso, Sigourney Weaver) e le prime prove teatrali, soprattutto shakespeariane. Il cinema la chiama nel 1977, con una piccola ma notevole parte in Giulia di Zinnemann, che la fa indicare tra le promesse dell’anno dell’autorevole «Screen World» di John Willis. E l’anno successivo, con il ruolo di Linda, la donna amata da De Niro e Christopher Walken nel Cacciatore, si aggiudica il suo primo Oscar (come non protagonista).
È l’inizio di una carriera travolgente che la vedrà affinare negli anni Ottanta un metodo di recitazione che cancella l’impressione della «prova d’attrice» e della sfida virtuosistica per privilegiare l’autenticità e la forza dei sentimenti ricreati. Anche scegliendo personaggi non proprio accattivanti, come la moglie che abbandona marito e figlio in Kramer contro Kramer. O la mamma di Un grido nella notte, accusata di aver sacrificato la vita del figlio per le sue fobie religiose, ruolo per il quale la Streep si sottopone a una specie di tour de force masochistico, imbruttita da un caschetto di capelli neri, ingrassata e sguaiata nel suo forte accento australiano. Tra parentesi, una delle sue grandi qualità, quella della bravura nell’imitare (e studiare, naturalmente) le diverse cadenze della lingua, dimostrata fin dai tempi della Donna del tenente francese, dove alterna americano e dialetto inglese del Dorset a secondo che interpreti la moglie Anna o la domestica Sarah.
Il secondo Oscar arriva nel 1982, per lo straziante personaggio di La scelta di Sophie (anche qui, un personaggio non certo empatico) e la consacrazione del pubblico più largo tre anni dopo, con La mia Africa al fianco di Robert Redford. Ma il suo vero colpo d’ala arriva a metà anni Novanta, dopo che superata la quarantina Hollywood sembra volerla mettere ai bordi per inseguire solo volti giovani. La sua prova nei Ponti di Madison County non solo le conquista una nuova nomination ma dimostra che il suo modo di recitare piace al pubblico nonostante le rughe (la sua unica concessione all’estetica è evitare i bagni di sole). Iniziando così una seconda stagione di successi – con il terzo Oscar per The Iron Lady e la ventunesima nomination per The Post – che non sembra volersi fermare.