Corriere della Sera, 22 giugno 2019
«Non sono le regole europee a frenarci ma la nostra incapacità di liberarci di una spesa pubblica apparentemente intoccabile». Lo dicono Alesina e Giavazzi
Il chiodo fisso del nostro governo nella trattativa con l’Europa è che l’economia italiana non cresce per colpa delle regole imposte da Bruxelles: «I nostri conti sono in disordine perché per troppi anni abbiamo applicato l’austerità imposta dall’Europa» ha detto Matteo Salvini. La conclusione è che quelle regole vanno cambiate e nel frattempo l’Italia deve essere autorizzata a violarle. E quando si vedrà che abbiamo ragione, ha aggiunto Di Maio in un’intervista al Financial Times, l’Europa si convincerà che «la ricetta italiana dovrà essere adottata da tutti».
«Non è un’idea nuova che qualcuno dica: ‘Tutti gli altri non hanno capito niente, io ho capito tutto e ho qui la soluzione miracolosa per tutti i vostri problemi’», ha detto ieri a Venezia il commissario europeo alla Concorrenza, Margrethe Vestager. «E invece è un’idea vecchia – ha aggiunto – I libri di storia sono pieni di esempi simili». Esempi fallimentari.
Ma siamo proprio sicuri che le regole europee siano tanto sbagliate? La domanda è legittima perché gli italiani sono gli unici a lamentarsi: tutti gli altri Paesi dell’Eurozona, pur soddisfacendo le regole europee, crescono molto più di noi. Tranne che in Italia, nessuno più parla di austerità: nella media dell’Eurozona l’austerità è finita da almeno due anni, a parte nelle fantasie di chi vuole trovare scuse per la mancata crescita. L’austerità non c’è più, né in Italia né nell’Eurozona.
Consideriamo ciò che è accaduto in Portogallo, Spagna e Irlanda. Lasciamo da parte la Grecia, che è un caso straordinario, non confrontabile con altri. Sia per la dimensione della crisi, sia per la sequenza di errori specifici compiuti dal governo di Atene – a partire dalla sua disonestà nella rappresentazione dei dati fiscali – dalla Commissione di Bruxelles e dal Fondo monetario.
Nel maggio 2011, all’apice della crisi dell’euro, la situazione economica in Portogallo era peggiore della nostra: il tasso di interesse sui titoli pubblici decennali aveva raggiunto il 9 per cento (2 punti più che in Italia quando, pochi mesi dopo, scoppierà la crisi) e il deficit dei conti pubblici aveva chiuso il 2010 sopra l’11 per cento, quasi tre volte il livello del deficit italiano. Il debito pubblico, in rapporto al Pil, era simile: 117 in Italia, 111 in Portogallo, ma l’intervento dello Stato per evitare fallimento di una delle maggiori banche portoghesi costerà 2 punti di Pil e non sarebbe stato l’unico. Nel maggio 2011, il governo di Lisbona chiese un prestito all’Europa e al Fondo monetario internazionale e per ottenerlo si impegnò ad un piano di risanamento.
In Irlanda lo scoppio di una bolla immobiliare aveva reso sostanzialmente insolvente il sistema finanziario. L’intervento pubblico per salvare le banche aveva fatto salire il debito, in rapporto al Pil, dal 24% del 2006 al 120% nel 2012. Anche in Spagna il sistema bancario era diventato sostanzialmente insolvente. E in tutti e tre i Paesi l’economia stava entrando in recessione.
Per far fronte a questa situazione Portogallo, Irlanda e Spagna introdussero programmi di austerità molto più draconiani dei nostri. In Irlanda l’austerità fu tutta sulle spese, tagliate (rispetto all’andamento tendenziale) dell’11% del Pil circa, una riduzione media della spesa del 2,2% all’anno in cinque anni. In confronto l’austerità attuata in Italia dai governi Berlusconi e Monti non superò, nel biennio 2011-12, il 6% del Pil, di cui il 55% furono aumenti di imposte e il 45% tagli di spesa.
Come in Irlanda, così anche in Portogallo l’intervento fu più sulle spese che sulle tasse, mentre in Spagna fu circa metà e metà. In Portogallo il programma fu inizialmente concordato con l’Europa da un governo conservatore, ma quando questo perse la maggioranza, nelle elezioni del 2014, e venne sostituito da un governo guidato dal Partito Socialista, sostenuto da due partiti di estrema sinistra, il Bloco de Esquerda e il Partito comunista portoghese, la correzione dei conti pubblici continuò.
Tutti questi Paesi, dopo una recessione iniziale – molto più breve e contenuta in Irlanda che in Portogallo e Spagna – ora stanno crescendo ben più dell’Italia (intorno al 2 per cento Portogallo e Spagna, quasi il 4 per cento l’Irlanda a fronte dello 0,1 previsto per l’Italia) e non hanno difficoltà nel soddisfare le regole europee (perfino la Grecia oggi cresce più di noi e ha uno spread inferiore al nostro).
I risultati positivi del Portogallo sono anche il frutto di alcune importanti riforme strutturali concordate con l’Europa e che hanno migliorato la competitività dell’economia: successive liberalizzazioni nel mercato del lavoro, nel 2010, nel 2012 e 2013, nei mercati dei beni, nel 2010 e nel 2013. Un vasto programma di privatizzazioni «vere», cioè cessioni di aziende pubbliche a privati: il programma generò quasi 5 miliardi di euro (equivalente, se lo si traducesse in Italia oggi, a circa 40 miliardi di privatizzazioni date le dimensioni dell’economia portoghese rispetto alla nostra). E poi una nuova legge sulla concorrenza che rafforzò i poteri dell’Autorità antitrust.
Insomma: le regole europee pare siano un problema solo per noi. Detto questo Matteo Salvini ha ragione nel volere un taglio delle imposte. Ma l’idea che i tagli si autofinanzino con più crescita è semplicemente falsa. C’è però una via di uscita. L’effetto positivo sulla crescita di un taglio delle imposte è molto maggiore dell’effetto negativo sulla crescita di tagli di spesa. Questo è un risultato su cui ormai concordano tutti gli economisti che si sono occupati dell’argomento. Possiamo continuare a negarlo, ma ciò non cambia la realtà dei fatti. Quindi tagli di imposte finanziati con tagli di spesa che ci mantengano all’interno delle regole europee sarebbero espansivi, cioè aumenterebbero la crescita.
Quindi non sono le regole europee a frenarci ma la nostra incapacità di liberarci di una spesa pubblica apparentemente intoccabile. Continuare nella battaglia contro un falso nemico, l’Europa, anziché attaccare quello vero, la spesa pubblica rigida, prima o poi spaventerà gli investitori. E allora saranno guai seri.