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 2019  giugno 22 Sabato calendario

Intervista a Giovanni Filoramo

Mi aveva colpito, quando ne venni a conoscenza, che uno dei massimi storici delle religioni, e in particolare del cristianesimo, avesse nei riguardi del suo oggetto principale, cioè Dio, una sostanziale diffidenza, nutrita da un insidioso scetticismo.
Come se, paragone assai profano, un grande pasticcere si dichiarasse affetto da diabete. Al mio stupore, Giovanni Filoramo – che ha insegnato storia del cristianesimo a Torino, autore di libri importanti sullo gnosticismo e il sacro e che da ultimo ha pubblicato Il grande racconto delle religioni (un affresco ampio e bello sulle tantissime religioni che hanno accompagnato le nostre plurime civiltà, edito da Il Mulino) – risponde con tranquilla determinazione: «Non sono un teologo, non lo sono mai stato. Forse perché alla intelligenza acuta dei teologi ho preferito l’ingenuità e la chiarezza della storia, ho preferito le cose che si vedono a quelle che non si vedono».
Filoramo è nato a Monopoli nel 1943: «Mio padre proveniva da un famiglia piccolo borghese di Gela. Ho conosciuto la Sicilia negli anni della ricostruzione bellica. Povertà dovunque e condizioni di vita difficili.
Mia madre invece era di Monopoli e la sua era una famiglia benestante. I miei primi anni li ho trascorsi tra la Sicilia e la Puglia. Poi mio padre, che era ufficiale della Guardia di Finanza, ebbe un posto a Torino e lì sono sempre vissuto, dall’età di sei anni. Quanto alla mia passione per le religioni fu un frutto controcorrente in anni in cui la gente non pensava di spiegare le grandi istituzioni (e la Chiesa lo era) ma ad abbatterle. Ovviamente la memoria corre al 1968».
Quell’anno lei che faceva?
«Mi stavo per laureare. E siccome la mia tesi era un’indagine sulla storia del cristianesimo ricordo che i miei amici mi prendevano in giro. Allora si parlava della morte di Dio e non certo del suo ritorno.
Sembrava a tutti chiaro che la religione da un momento all’altro si sarebbe estinta».
Il suo interesse dunque perché?
«Pur non essendo un credente ero affascinato dalla religione. Un amico, a cui ero molto legato, mi aveva parlato del Vangelo di Giovanni. Quel testo divenne per me fondamentale permettendomi di entrare in contatto con il mondo dell’antica gnosi».
Con chi si laureò?
«Il mio relatore fu Franco Bolgiani, uno storico cattolico di grande valore, recentemente scomparso. Un altro professore importante fu Michele Pellegrino che sarebbe diventato arcivescovo di Torino. Restai favorevolmente impressionato da entrambi. Ciò che li univa era una profonda fede vissuta laicamente. A quel tempo seguii anche le lezioni di Luigi Pareyson. Sentivo un’affinità con le sue riflessioni, ma volava troppo alto per me. Ecco il mio interesse per la storia: ero nato per volare basso, vedere che cosa succede di bene (poco) e di male (molto) nel mondo, in particolare letto dalla prospettiva del cristianesimo».
Il bene e il male sono il campo su cui si è esercitato lo gnosticismo. Che cos’è la gnosi?
«È una forma di conoscenza salvifica alternativa alla fede. Io non ho la fede ho solo la mia ragione. Ecco perché lì – attraverso i testi gnostici – mi si presentava una scena che potevo comprendere e contrastare».
Contrastare in che senso?
«Come Pareyson, anch’io ritengo che esista il Male, il male radicale, contro cui naturalmente bisogna lottare, ma da cui non si può sfuggire. Ma come lottare? Questo è il punto. Nella gnosi per molto tempo ho visto una via di uscita da questa condizione in cui viviamo».
Lo gnostico direbbe nella quale siamo precipitati.
Come ce ne rendiamo conto?
«Nelle forme antiche la gnosi era comunicata da un “rivelatore” – per esempio l’Inviato celeste del Vangelo di Giovanni – che permetteva di scoprire al proprio interno un elemento di origine trascendente: il proprio Sé, che giaceva dimenticato».
In altre parole svegliava quella parte di noi in grado di combattere il male?
«Certo, anche se oggi è più difficile credere all’esistenza di un rivelatore trascendente».
Eppure lei dà l’impressione di sentirsi coinvolto dalle tematiche gnostiche.
«Personalmente mi sento più in sintonia con il buddismo delle origini. Ciò che il Buddha viene a comunicare è una forma assoluta di gnosi. Ma non la rivela, indica solo la via. Poi la scalata la devi affrontare da solo se vuoi raggiungere la meta, che per il buddismo è l’estinzione di ogni desiderio».
Oggi quasi più nessuno legge i testi gnostici, del primo e del secondo secolo dopo Cristo. Ma la gnosi sopravvive in forme anche sorprendenti. Perché?
«Il male continua ad albergare nel mondo. Lo si è visto all’opera lungo tutto il ’900. Le catastrofi climatiche, i conflitti bellici, la fame e la miseria, la sopraffazione e la violenza, insomma tutto il corredo di eventi che sembravano debellati tornano anche sotto forma di esoterismo popolare. È come se la letteratura apocalittica si sia trasferita nelle concezioni New Age, nella spiritualità senza Dio o nei prodotti letterari e cinematografici. Matrix dei fratelli Wachowski ha un evidente sfondo gnostico. Voglio dire che si cerca una risposta al male e si crea uno schema mentale per affrontarne le conseguenze. E non è una novità di questi ultimi decenni».
Un tema ricorrente?
«Ogni volta che la crisi supera i livelli di guardia lì proliferano esoterismi e gnosticismi. Ho studiato gli
Eranos Jahrbücher, le conferenze che un gruppo di straordinari personaggi – da Jung a Hillman, da Corbin a Scholem fino a Eliade – hanno tenuto ad Ascona. Quei discorsi affondavano le loro radici nella cultura della crisi tipica del periodo tra le due guerre. E Jung vi giocò un ruolo fondamentale».
In che senso?
«Fu lui a dare un impulso decisivo alle tematiche gnostiche. Prima di scoprire gli alchimisti Jung leggeva i testi gnostici i cui autori erano gli antesignani del suo metodo psicoanalitico: il pleroma come forma di inconscio collettivo e la gnosi come ricerca del sé.
Arriva alla psicologia analitica attraverso queste esperienze che abbiamo conosciuto grazie alla pubblicazione del suo Libro rosso».
Una religione può fare a meno di Dio?
«Sì, il caso del buddismo antico è da questo punto di vista esemplare, ma non certo l’unico. Ciò da cui non si può prescindere è l’idea del divino. Occorre sapere che l’orizzonte dell’umano non è autosufficiente, c’è sempre qualcosa di ulteriore comunque definito».
Alla fine cosa rappresentano le religioni ai suoi occhi?
«Un prodotto geniale della creatività umana, con tutte le contraddizioni che ciò comporta: violenza indiscriminata, per cui si può uccidere in nome di Dio, ma anche amore per il nemico e compassione verso l’universo».
Questo spiega l’estensione del buddismo verso occidente?
«Ne giustifica in parte il successo ma vedrei almeno un secondo motivo che si ritrova espresso nella predicazione e negli scritti del Dalai Lama: centrale nel buddismo delle origini, è di essere una Via, un metodo, un percorso che ogni individuo può seguire per pervenire alla Liberazione: dunque, nessuna rivelazione, niente scritture o leggi sacre, nessuna chiesa».
A questo punto l’uomo a chi si affida?
«A se stesso, alla sua ragione e volontà. Una Via che si sposa perfettamente con l’individualismo dominante e questo alimenta la sua presa in occidente. Peccato che, a differenza del narcisismo e del solipsismo ancor più dominanti, questa via esiga un’autodisciplina di ferro, una compassione universale, una volontà di estinguere ogni attaccamento al mondo: niente telefonino!».
Buddismo a parte, si nota un richiamo sempre maggiore per le religioni cosmiche.
«È un’attrazione che l’uomo occidentale riscopre in seguito alla crisi ecologica. Egli si rende conto di non essere più il centro dell’universo ma solo una sua particella e che se vuole evitare l’autodistruzione derivante dalla sua inarrestabile volontà di potenza, deve imparare a ristabilire un rapporto di profonda empatia con la Natura».
A proposito dell’empatia, è ancora praticabile una via sciamanica alla conoscenza e alla socialità?
«Nelle società tradizionali – penso alle popolazioni indigene dell’America del nord o a quelle siberiane – lo sciamano era una figura di mediazione con il mondo degli spiriti, che visitava periodicamente e da cui traeva i suoi poteri psichici e terapeutici. Vedeva quello che l’uomo comune non vedeva, comunicava con le potenze spirituali utilizzando quelle positive e sconfiggendo quelle negative che minacciavano continuamente i singoli e la comunità. Era una figura insostituibile. Ma quanto all’oggi parlerei di un neo-sciamanesimo».
Per indicare cosa esattamente?
«I nuovi guru dell’era tecnologica e virtuale. Come dire? Gli Steve Jobs di questo millennio. Personalità dotate di poteri straordinari, in grado di compiere voli della mente impossibili per l’uomo comune. Ho l’impressione che la religione tecnologica continuerà a ricorrere a nuovi sciamani».
Il nuovo e in parte imprevedibile connubio tra religione e tecnologia è stato favorito da componenti magiche presenti nell’attuale rivoluzione scientifica, guidata da Internet?
«Che cosa intende per componente magica?».
Qualcosa che l’Europa conobbe agli inizi della rivoluzione scientifica, quando ancora pensiero scientifico e pensiero alchemico viaggiavano insieme.
«Si tratta di un filo nascosto che non è mai stato reciso. E che oggi viene nuovamente tirato dai movimenti New Age o Next Age i quali, sempre più in rapida trasformazione, si stanno adattando alla nuova situazione. L’idea centrale è sempre quella di sostituire il Dio cristiano con una spiritualità senza dio, dominata dall’Energia cosmica e dalla consapevolezza del legame profondo che ad essa ci unisce».
E questo legame dove conduce?
«La domanda giusta non è dove conduce ma cosa riprende. Né più né meno, banalizzandola, la visone gnostica tipica delle Upani?ad: il legame tra il Sé o atman individuale e l’Assoluto o Brahman. Qualcosa che nell’attuale contesto della religione tecnologica funziona benissimo».
Se funziona bene vuol dire anche che ha un futuro?
«Quella tecnologica sarà la religione del futuro. La Coscienza cosmica, come in Matrix è ora diventata ciò che c’è dietro il mondo pur sempre misterioso della Rete. Si tratta di una “realtà” invisibile che ispira e guida le nostre azioni. E poi c’è la Singolarità di cui ha parlato Kurzweil».
Ray Kurzweil sembra uno di quei nuovi sciamani cui si accennava.
«Non a caso è l’ingegnere capo di Google, il nuovo sacerdote dei programmi avveniristici, colui che pensa che la tecnologia non si muoverà più in maniera lineare ma esponenziale. Saranno trasformazioni velocissime che coinvolgeranno la mappa neurale, oltre che il corpo. Il patto tra l’uomo e la tecnica diverrà un matrimonio tra parti che non si distingueranno l’una dall’altra. Qui la Singolarità».
Sarà una nuova forma di monoteismo?
«È difficile da prevedere. La dimensione magica della scienza, alla quale si accennava, mi fa pensare anche al senso di onnipotenza che l’uomo tecnologico sta acquisendo. Ma direi di più: la Rete e la Singolarità offrono la possibilità di superare la dimensione umana, diventando come Dio. Il rischio di un nuovo fondamentalismo, dunque, è molto alto».
Dopotutto, il fondamentalismo, come la stupidità, è una componente ineliminabile nell’uomo.
«Temo di sì, ma credendo nel Male sarei molto più pessimista di lei. Il fondamentalismo cui si riferisce è espressione di questo Male, si può combattere ma è difficile da eliminare».