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 2019  giugno 22 Sabato calendario

Intervista a Alejandro Jodorowsy

 È successa una cosa strana. Il giorno prima di questa intervista sono passato per caso davanti alla chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, a Roma, in cui è conservata, si dice, una parte della croce di Gesù e ci sono entrato. La sera guardando il dvd del film di Alejandro Jodorowsy, La montagna sacra ( appena rimasterizzato dalla Cineteca di Bologna insieme all’altro film fondamentale, El Topo) mi sono accorto che una delle foto che ho scattato alla vetrata della cripta era quasi identica a uno dei fotogrammi del film. Quello che vedete qui sotto. «Molto bene. Ti spiegherò cosa significa», dice Jodorowsky. «Nella cabala ebraica le lettere sono numeri: tu hai incontrato Dio, il Tetragrammaton. Il suo nome è YHVH: Yud è 10, Hey 5, Vav 6, Hey ancora 5. Il tuo numero è il 26. E poi hai incontrato la morte di Cristo nella cripta della chiesa attraverso la Via Crucis che è il corrispettivo della ricerca alchemica del protagonista de La montagna sacra. Questo numero nei Tarocchi è il 13: l’Arcano senza nome. La morte, ovvero l’Arcano della trasformazione profonda. 13 x 2 fa 26: è un circolo. L’arcobaleno che vedi nel fotogramma del film e nei colori della foto della vetrata della cripta che hai scattato è speculare. La vita è magica perché tu oggi mi hai portato l’arcobaleno e io sto lavorando a una nuova versione del mio film Il ladro dell’arcobaleno che presenterò a settembre alla Cinémathèque di Parigi».
Se avessi voluto spiegare che cos’è la “psicomagia”, la disciplina inventata da Jodorowsy, non avrei potuto farlo meglio di così: ne siamo già protagonisti. Io e voi che state leggendo questa intervista. Di certo Jodorowsky è uno dei personaggi più difficili da definire mai incontrati. La sua risata è quella del Matto. L’unico Arcano senza numero il cui significato è: libertà. Che per alcuni è l’espressione più pura della gioia. Ad altri invece fa paura.
Lei ha fatto molte cose: teatro, mimo, performance.
Perché a un certo punto ha deciso di fare invece dei film?
«Sono nato in una cittadina nel nord del Cile. Non c’era niente, solo una biblioteca e un piccolo cinema: ogni domenica ci andavo. Era come entrare nel mondo delle fiabe e così il cinema è diventato il mio amore. Eravamo poveri. Mio padre aveva un negozio di vestiti e io dovevo aiutarlo. C’erano molti ladri, il mio lavoro consisteva nel segnalarglieli. Odiavo quel lavoro, odiavo mio padre».
Che cosa ha fatto per emanciparsi da lui?
«Ho lottato per fare qualsiasi tipo di arte: poesia, teatro, pittura. Ammiro Leonardo Da Vinci, Jean Cocteau, Pasolini, artisti che non si focalizzavano su una sola cosa. Quando ho deciso di fare cinema non volevo limiti. Ma quando fai questo hai un grande nemico: il produttore».
Perché considera il produttore suo nemico?
«Lui è il re, il papa, il dittatore che vuole fare film che piacciano a tutti perché vuole solo guadagnare soldi».
Quando se ne è reso conto cosa ha deciso di fare?
«Ho deciso di non fare più quel cinema: niente industria, niente ossessione per i soldi, niente star system, niente tappeto rosso, niente festival. Dobbiamo combattere tutto questo perché non è arte. Il nostro mondo è davvero in una cattiva forma: abbiamo bisogno di distrarci, di diventare infantili per riuscire a vivere qui. E così i film di oggi sono come un’aspirina. Quando sei un bambino hai bisogno di cose semplici: vai a vederle, ti diverti tanto e quando torni a casa sei… un idiota! Nessun cambiamento spirituale, niente...».
E invece se uno guarda i suoi film cosa succede?
«Io non faccio film su narcotrafficanti o eroi vari. Faccio film per aiutare le persone a trovare il proprio valore artistico. Che è persino più importante di quello mistico».
Chi è per lei l’artista?
«L’arte è una versione della religione che ti permette di trovare il meglio di te dentro te stesso. E il compito dell’artista è quello di fare qualcosa di utile per gli altri, mostrare i valori che sono dentro gli esseri umani».
Quali sono per lei questi valori?
«Ci sono tre valori fondamentali: verità, bellezza e gentilezza. E dal momento che il mondo è terribile credo che l’arte possa dare un qualche tipo di soluzione agli esseri umani. L’arte. Non la politica».
Ma in che modo l’arte può salvarci?
«Dobbiamo fare una rivoluzione poetica. Ogni uomo è un poeta ma ci vuole un processo che va portato all’estremo per tirare fuori questa parte poetica da noi stessi. Solo se ci riusciremo il mondo cambierà davvero».
C’è stata un’evoluzione tematica nei suoi film?
«Ho iniziato a trent’anni. Il mio primo film, Fando Y Lis riguardava la ricerca metafisica, quella di un mondo che non puoi trovare, l’assurdità della vita. Poi ho fatto El Topo che è una ricerca attraverso i problemi della società e dopo ancora La montagna sacra: la ricerca nella mente».
Ovvero?
«La ricerca attraverso tutti i simbolismi, le spiritualità, le domande. Una grande ricerca metafisica senza alcun limite. Quando ho finito questo film ho sentito un grande cambiamento dentro di me. Ero vuoto. Tutto ciò che avevo era stato messo lì. Poi ho cercato di connetterlo con il film successivo, Santa Sangre, che indagava le emozioni. E poi per vent’anni non ho più fatto film».
Perché?
«Il mio cinema non poteva avere a che fare con il business. Così ho cercato dei soldi. Pochi: due milioni e mezzo di dollari. Per un cinema di antieroi. Anche il mio prossimo film, Psicomagia, è nato così: in rete, con il crowfunding. Lo presenteremo ad agosto a Parigi».
È stato complicato immagino fare una cosa simile...
«Per dieci anni ho lavorato ogni giorno per tre, quattro ore per ottenere follower su Facebook e Twitter. Anche oggi lo farò. Così su Facebook adesso ho quattro milioni di follower e due milioni su Twitter. Ognuno di questi parla con altre persone. Credo di poter “toccare” (dice proprio così, ndr) quasi dieci milioni di persone. Sono tante. Ho chiesto 100mila euro. Ne sono arrivati 170. Funziona perché queste non sono persone che vogliono guadagnare soldi, sono persone che hanno regalato soldi e io adesso non lavoro con superstar e produttori, lavoro con loro. Questa è la rivoluzione di cui parlavo».
A proposito di attori, lei spesso ha lavorato con i suoi figli. Perché questa scelta?
«Volevo che i sentimenti fossero veri e non possono esserlo se vengono imitati da attori. Facendo El Topo io ho cercato di risolvere un grande problema che avevo con mio padre attraverso un atto di creazione artistica».
C’è riuscito?
«Sì. Questa è la base della “psicomagia”. Io ho 90 anni adesso e volevo fare un film che raccontasse che cos’è e come funziona. So che morirò e non mi interessa fare intrattenimento o raccontare una storia. Alcuni criticano i miei film dicendo: “dov’è la storia?”. Una storia c’è ma per trovarla devi cercarla, esplorarla. È la mia storia. È la tua storia. Ed è comunque una storia meravigliosa».
E nel frattempo vengono restaurati i suoi due film più famosi. Crede che sia importante che le nuove generazioni abbiano la possibilità di vederli?
«La cosa più importante è dimostrare alle nuove generazioni che anche loro possono farli. Però se cercano il denaro o il potere o la gloria non troveranno nulla. È un momento molto pericoloso, stiamo distruggendo il pianeta e la razza umana. E adoriamo cose come il football ma il football non è una religione, è distrazione. E poi adesso è il momento del patriottismo: questa è già una guerra! L’arte non ha nazionalità, siamo una comunità».
Quindi lei è pessimista per il nostro futuro?
«Al contrario, sono assolutamente ottimista. Sto completando la mia strada e tra poco morirò. Ah ah ah ah. La mia donna ha 45 anni meno di me. Ah ah ah ah. Ictus o infarto possono arrivare ogni giorno. Ah ah ah ah. Non so fino a quando avrò soldi. Ah ah ah ah. Per vivere faccio fumetti. Ah ah ah ah. Ma c’è un momento in cui ti rendi conto che tu sei gli altri. Non esiste individualità».
Così lei non ha paura della morte?
«Questo è differente. Io credo che in noi abbiamo quattro parti: mente, cuore, sesso e corrispettivi pensare, amare, desiderare. E poi c’è il corpo. E così la mia mente ha completamente accettato di morire. Ma non muoio. Cosa posso farci? Il corpo non vuole morire e combatte sempre per sopravvivere, è naturale. Spiritualmente ho bisogno di morire ma fisicamente io farò di tutto per sopravvivere il più a lungo possibile. A 90 anni non sono più un idiota».
Prima parlava di fumetti: lei e il grande disegnatore francese Moebius con “L’incal” avete realizzato una delle pietre miliari del genere. Il fumetto le concede una libertà maggiore rispetto al cinema?
«Sì, è più libero ma anche in questo caso, se non si vendono almeno 20mila copie, una serie non va avanti.
Però è vero che, visto che non mi hanno permesso di fare Dune, l’ho realizzato lo stesso grazie al fumetto».
Ah sì? Ma le interessava così tanto il libro di Herbert?
«Per niente: non l’avevo mai letto. L’ho fatto solo quando mi hanno chiesto di fare Dune. Ma io volevo fare il mio Dune, non il suo. E l’ho fatto: è L’Incal».
Ma perché non le hanno fatto fare “Dune”?
«Perché la mia versione durava 14 ore. Dicevano che ero pazzo. Oggi le serie tv durano molto di più».
Lei da molti è ritenuto un guru: lo è?
«Ho avuto questa tentazione: l’ego è un grande inganno.
Ma poi mi sono reso conto che niente è tuo. Nemmeno il corpo e così scopri l’umiltà necessaria per sopravvivere e il dono del servire. E così ogni giorno ti svegli e dici: “Che miracolo: un altro giorno!"».