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 2019  giugno 22 Sabato calendario

Una lunga intervista a Michael Stipe


Sono già pronte diciotto canzoni. Per cinque anni avevo fatto tabula rasa della musica. Ora sto scrivendo, componendo e registrando tutto da solo ed è la prima volta». In un cortile bolognese al riparo dal sole delle tre del pomeriggio, Michael Stipe – otto anni dopo lo scioglimento dei R.E.M. (era il 2011) – dice, improvvisamente, che sì, alla fine, la musica è tornata.
I tre inediti eseguiti a maggio a New York, durante il concerto dell’amica e musa Patti Smith, erano un assaggio. L’esordio da solista ci sarà. Ma, per saperne di più, dobbiamo andare per gradi. Il vento fa volare via i fogli con gli appunti. Lui, in camicia e bermuda chiari, si alza per raccoglierli. Sul tavolo ci sono le bozze fresche di Our Interference Times: a visual record, il suo secondo libro di fotografie con gli scatti selezionati dallo scrittore Douglas Coupland. Un disco per immagini, in attesa dell’altro. L’ex leader della band americana di Athens, Georgia, più di 85 milioni di album venduti in una carriera trentennale, si è fermato a Bologna tre giorni per seguire di persona le fasi di stampa nella tipografia della casa editrice Damiani, che lancerà l’opera a luglio in Italia e poi in autunno nel resto del mondo. «Il mio vero lavoro, al momento, è questo» e batte la mano sulle pagine. «Ho scattato foto per tutta la vita. Saranno centinaia di migliaia, non esagero. Per me rappresentano il panorama emotivo e visivo di quest’epoca di transizione e caos: il libro che sta per uscire credo sia la cosa migliore che abbia fatto finora. Dalla musica ho imparato che, per spiegare tutto, un artista tende a sminuire ciò che fa. Ho sempre combattuto per tradurre in parole, in canzoni, le immagini che avevo in testa. Le foto sono più dirette, contengono già delle risposte, non vanno descritte».
Quando Stipe si sbarazza delle lenti da vista, libera gli occhi blu e poi li chiude per cercare le parole – lui che compirà sessant’anni il prossimo 4 gennaio – è di nuovo il ragazzo di Losing My Religion. Oh no I’ve said too much, sembra dire. Perché non ama raccontarsi troppo. Ha lasciato Instagram e i social network nei mesi scorsi: «Sono solo sciocchezze». Sparsi davanti a lui adesso ci sono i ritratti degli amici, «la famiglia da cui veniamo e quella che ci siamo scelti»: River Phoenix, Kurt Cobain, William Burroughs, Allen Ginsberg, Patti Smith. I loro volti si alternano a paesaggi, schermi fotografati, foto di foto di Michael bambino o ventenne, scansioni in 3D, ricordi e proiezioni di futuro. Analogico e digitale convivono e interferiscono l’uno con l’altro. Chi è cresciuto con le canzoni dei R.E.M., chi era adolescente o poco più tra gli anni Ottanta e Novanta, troverà in queste immagini gli echi di una storia che in parte ha già incrociato. Con i sommersi e i salvati della generazione X. C’è una bellissima foto dell’attore River Phoenix addormentato, scattata pochi mesi prima che morisse a 23 anni, il 31 ottobre 1993. Era sul punto di diventare una superstar. «Aveva dieci anni meno di me ed eravamo amici fraterni – ricorda Stipe —. Doveva recitare la parte di Arthur Rimbaud nel film di Agnieszka Holland Poeti dall’inferno. Io gli regalai Il tempo degli assassini, il libro di Henry Miller su Rimbaud. Era entusiasta, mi diede la sceneggiatura, dicendomi: “Sta’ tranquillo, ti aiuterò io con le battute, ma tu devi essere Paul Verlaine"».
E lei che cosa rispose?
«Con River avrei fatto qualsiasi cosa. Sarei diventato anche Verlaine. Lui morì pochi giorni dopo avermi consegnato il copione. Più tardi regalai lo stesso libro su Rimbaud a Leonardo Di Caprio, che ereditò la parte. Per Leo e per gli attori della sua generazione River Phoenix è stato fondamentale. Il ruolo di Verlaine andò poi a David Thewlis: non sarei mai riuscito a essere perfetto come lui».
Non ha mai pensato di diventare un attore?
«Per niente, non so recitare. Ho prodotto dei film ( Velvet Goldmine, Essere John Malkovich, tra gli altri, ndr), ma ora ho smesso anche con questo».
Diciamo che lei il quarto d’ora di celebrità non l’ha mai inseguito. Ma è vero che Andy Warhol le chiese il numero di telefono?
«Sì, era il 1985 e ci facemmo una foto insieme che ho messo nel primo libro. Gli diedi il numero, solo che poi non ho mai saputo se mi chiamò o no perché all’epoca non avevo la segreteria telefonica. Fu molto tenero con me. Mi disse che ero carino e mi chiese: “Che cosa fai?”.
E io: “Il cantante in una band”. E lui: “Allora sei una popstar”. E io: “No, faccio solo il cantante in una band”.
E lui: “Allora sei proprio una popstar”. L’anno dopo con i R.E.M. facemmo boom. Warhol aveva ragione: ero una popstar, ma non lo avevo capito ancora».
Sempre nel suo primo libro, “Volume 1”, ha inserito una foto delle mani di Kurt Cobain. A guardarla oggi sembra un’icona religiosa, una reliquia della generazione X e del grunge.
«Kurt, a differenza di River, non amava essere ripreso in volto. Non era a suo agio con la macchina fotografica. E da amico lo rispettavo. (Raccontando di Cobain, Stipe abbassa il tono della voce e parla più lentamente, ndr).
Così la sola foto che gli ho fatto è quella delle mani. Nella stessa settimana fotografai le sue e quelle di mio padre. Kurt era una persona di un’intelligenza acuta, anche se non aveva studiato molto. Ed era divertente. Non lo si sottolinea mai, ma aveva un grande senso dell’umorismo. Era sì tormentato, ma anche molto dolce».
È vero che la moglie Courtney Love trovò nello stereo di Cobain il cd di “Automatic for the People” dei R.E.M.? Probabilmente è l’ultimo disco che ascoltò prima di togliersi la vita.
«Sì. Al di là della mitologia su di lui, al di là della sua faccia sulle magliette, venticinque anni dopo la sua morte, bisogna dire che, per quanto fosse speciale, Kurt era prima di tutto un essere umano come tutti.
Amava ridere. Se fosse vissuto di più, sarebbe diventato un autore ancora più grande».
I R.E.M. e i Nirvana hanno rappresentato due modi diversi di raccontare il dolore agli adolescenti della generazione X. Voi cantavate la sofferenza, ma anche la consolazione collettiva: “You’re not alone” diceva la canzone “Everybody Hurts”. In Kurt Cobain c’era una disperazione più estrema: ascoltandolo, ci si sente soli davvero come lui.
«Con la sua voce, le parole e la musica, Kurt incarnava la rabbia di una generazione. A volte bisogna urlare per stare meglio. Il suo grido nascondeva una possibilità di catarsi. Ma sono sicuro che era sul punto di diventare un musicista diverso. Se fosse vissuto di più, ci avrebbe stupito ancora: non sarebbe stato incollato per sempre a quella rabbia. Si stava muovendo già in un’altra direzione. Voleva fare una musica più meditativa, lasciandosi tutto quel furore alle spalle».
Come si sopravvive al successo?
«Si deve oltrepassare il buio. Dopo
Fables of Reconstruction, il nostro terzo album, uscito nel 1984, c’è stato un periodo della mia vita, durato più o meno un anno e mezzo, in cui avevo perso completamente la testa. Era all’epoca della foto con Andy Warhol. Avevo i capelli biondo platino, il rossetto rosso sparso sulle sopracciglia e vivevo un momento difficilissimo. Ma solo attraversando quella fase tremenda ho capito la verità: che desideravo sopravvivere, che mi interessava vivere davvero. Volevo fare l’artista e volevo che gli altri, la mia famiglia, gli amici, il pubblico, mi ascoltassero. E potevo riuscirci solo impegnandomi di più, facendo in modo che il mio lavoro fosse preso sul serio. Ho vissuto gli stessi problemi che attraversano le persone vulnerabili quando arriva il successo. Gli stessi di River, di Kurt, di Thom (Yorke, il leader dei Radiohead,
ndr).
Il successo è qualcosa che può apparire una meraviglia da fuori, ma che da dentro rischia di diventare un inferno. Ho visto il baratro scuro spalancarsi davanti a me e ho fatto un passo indietro».
Ha vissuto lo stesso momento che ha attraversato Kurt Cobain.
«Per lui il successo è arrivato troppo velocemente e in un periodo diverso. Era l’inizio degli anni Novanta, il rock era cambiato, il mondo, il mercato della musica e le sue pressioni erano cambiate. E tutto è accaduto troppo in fretta. Io ho avuto più tempo. Sto molto con sua figlia, Frances Bean, che è una tipa tosta. Sono e sarò sempre il suo padrino, faccio un po’ lo zio con lei.
Ma non mi sono mai sostituito a suo padre».
Frances Bean l’ha ripresa nelle scorse settimane mentre si faceva fare un tatuaggio e poi ha postato il video sul web.
«Sì, eccolo il tatuaggio (si arrotola la manica destra della camicia e ride)».
Tra le leggende fotografate da lei c’è anche William Burroughs.
«Mi intimidiva fotografarlo. L’ho ripreso di spalle, mai in viso e mai troppo da vicino. Era già molto anziano e per me che non ho studiato letteratura è stato un maestro. La sua tecnica del
cut-up,
con i frammenti di frasi mischiati e riassemblati, ha influenzato tantissimo il mio modo di comporre le canzoni».
Restando alla letteratura, lo sa che è nato lo stesso giorno della morte di Albert Camus, il 4 gennaio 1960?
«Certo. Patti Smith e io ci scherziamo su. Lei adora Camus. E io pure, l’avrei letto lo stesso, al di là della coincidenza. Mi interessano l’esistenzialismo e la letteratura di quel periodo».
Come ha scelto Douglas Coupland, l’autore di “Generazione X”, come curatore del suo secondo libro di fotografia?
«È una delle persone più importanti della mia vita.
Sicuramente la persona più importante con cui fare progetti. Andiamo in vacanza insieme: recentemente siamo stati in Giappone e negli Emirati… E poi lui si occupa di futuro. È allo stesso tempo pessimista e ottimista su quel che sarà e conosce benissimo il mio lavoro. Chi meglio di lui? Per il libro ha fatto una selezione tra 1700 fotografie. L’obiettivo era di restituire la confusione estetica che stiamo vivendo, sospesi tra analogico e digitale. Quello che si vede è intenzionalmente caotico. Il lavoro di un artista oggi è descrivere e definire dove siamo adesso e che cosa potremmo diventare. Coupland non può che essere d’aiuto in questo».
Anche in questo nuovo libro di fotografia compare un’immagine di Marlon Brando.
«Brando è il mio eroe: il primo attore di Hollywood che non ha avuto paura di incarnare un nuovo modello maschile. Fragile, vulnerabile e comunque virile: era impensabile per l’epoca in cui ha iniziato a recitare. È il Padrino della mia queerness, della mia eccentricità».
Negli anni Novanta le rimproveravano una certa cripticità. A partire dai testi...
«Ero solo me stesso e forse per questo non risultavo sempre facile da comprendere, sia come performer che come cantante. Ho usato la voce allo stesso modo di uno strumento. La comprensibilità letterale non era un obiettivo. La gente poi si interrogava sulla mia sessualità, non capivano. Cercavano di inquadrarmi».
Lei portava sul palco un modello maschile di rockstar totalmente alternativo e lontano da Bono o
da Freddie Mercury. E i media dell’epoca si chiedevano: Stipe è gay, bisessuale o etero?
«No, etero mai (ride). Ho cercato di fare della mia vulnerabilità una forza. Per questo Brando è il mio mito. Non ho mai vissuto la sessualità secondo un sistema binario predefinito. Oggi per fortuna è tutto diverso, le definizioni sono più inclusive e certi discorsi non hanno alcun senso».
Ha mai perso la sua religione?
«In senso letterale, sì. Ma credo che nel 2019 il mondo intero abbia perso la sua religione. Con il tramonto delle ortodossie, ognuno di noi è costretto a chiedersi chi è veramente, a cercare risposte al di fuori delle religioni rivelate, intraprendendo un percorso autonomo più complesso, lontano da ogni vincolo di dottrina. Losing my religion voleva raccontare il tormento e lo smarrimento della certezza. Oggi quella perdita è un dato scontato».
«Mick Jagger è il modello perfetto per spiegare che cosa significa essere una rockstar. Può fare tutto ciò che vuole. Chi ha detto che c’è un’età per lasciare il palco? Ha presente Tony Bennett? La mia storia è diversa, ma è solo la mia».
Ha reso omaggio a David Bowie con due cover.
«Quando mi chiesero di cantare
Ashes to Ashes
a un evento di beneficenza, Bowie era ancora vivo. L’ho cantata per la prima volta l’8 gennaio 2016. David è morto due giorni dopo. Da poco ho rivisto sua moglie Iman. Ci siamo abbracciati, lei mi ha chiesto di regalarle un’incisione della canzone. Le sue parole mi hanno commosso. Ho registrato la cover».
L’ha inviata a Iman?
«Non ancora. Devo farlo».
Rivedremo mai i R.E.M. insieme sul palco?
«No».
Frequenta ancora gli altri componenti della band, Peter Buck e Mike Mills?
«Parliamo continuamente, ci siamo sentiti ieri».
Che cosa vi siete detti?
«Questioni legali. Nulla di interessante. Affari. Di Peter e Mike so sempre dove sono e che cosa fanno.
Restiamo buoni amici. Così come con Thom Yorke. Ieri gli ho mandato un messaggio: “Sono in Italia. Tu dove sei?”. Mi ha parlato del suo nuovo progetto. Sarà una cosa strepitosa».
A proposito di nuovi progetti, lo scorso maggio a New York ha cantato in pubblico tre nuove canzoni, durante il concerto di Patti Smith. Due si intitolano “Your Capricious Soul” e “Drive to the Ocean”. Sta per tornare alla musica?
«Sto scrivendo e registrando nuova musica tutta mia.
Con i R.E.M. non avevo mai composto direttamente, mi occupavo dei testi e dell’arrangiamento. Adesso il mio approccio è completamente diverso. Lo ammetto, per me questa è una sfida entusiasmante. Sto tornando a provare il piacere di suonare. Avevo lasciato totalmente la musica per almeno cinque anni, facendo tabula rasa. Poi, improvvisamente mi sono chiesto “vediamo che cosa è rimasto su questa tavola”.
La musica arriva così. Non si sa come, non si sa quando».
Dobbiamo aspettarci un disco?
«Sì. Ma poi non lo so. Che cos’è un disco ormai?».
Quanti pezzi ha già realizzato?
«Ne ho registrati diciotto. Ma ora sono impegnato con la fotografia. Niente scadenze».
A che ora si sveglia?
«Mi piace lavorare di notte. Sì, sono un nightswimmer (si riferisce alla canzone Nightswimming, contenuta inAutomatic for the People, ride). Mi sveglio alle 11, giusto in tempo per il pranzo. Ma dedico al mio lavoro ogni ora passata in piedi».
È tempo di biopics, di film biografici, molti sono dedicati a star della musica…
«Mi è piaciuto molto Rocketman su Elton John. Il genere non mi appassiona, ma, a maggior ragione, mi ha stupito quanto sia riuscito a toccarmi e ad emozionarmi quel film».
Che ne direbbe di un film sui R.E.M.?
«Non mi interessa per niente. Amo il lavoro dei R.E.M.,
ma, a dire la verità, non credo proprio che la storia si presterebbe per un film».
Teme un ritorno eccessivo di fama? Adesso come va il suo rapporto con la notorietà?
«Benissimo. A New York prendo la metropolitana, mi spruzzo quest’essenza che mi faccio da solo al rosmarino e alla vodka e passo indisturbato. Stanno tutti con la testa nello schermo. Nessuno guarda più le persone».
C’è una canzone che, ascoltandola, le fa dire: «Ecco, io sono così»? Che canzone è Michael Stipe?
«Non vorrei sembrare arrogante ma, più che una sola canzone, sarebbe una sinfonia moderna».
Gershwin, “Rapsodia in blu”?
«Sì, Gershwin va benissimo. Lo sa che ho comprato un foglio con un suo autografo e l’ho appeso alla parete di casa? Sì, andiamo con Gershwin, affare fatto».