la Repubblica, 23 giugno 2019
Sulla Traviata di Zeffirelli
Tre applausi a scena aperta riassumono le ragioni della
Traviata inaugurale della 97esima stagione areniana. Per lo spettacolare cambio (quasi) a vista del II atto: dallo chalet-giardino d’inverno all’imperiale salone-teatro delle feste. Per l’esplosione di coriandoli che chiude il divertissement carnevalesco. Per l’imperdonabile “Libiamo nei lieti calici” eseguito a mo’ di bis; a opera conclusa, dagli interpreti in passerella per i ringraziamenti. C’era grande attesa per Traviata “di” Franco Zeffirelli, più realisticamente di Stefano Trespidi suo aiuto regista di fiducia e vicedirettore artistico della Fondazione veronese. La morte del festeggiato ha mutato l’ennesima variazione sul tema-Violetta in mediatica e istituzionale commemorazione. Solo ospite Verdi, la sua tagliuzzata partitura, un direttore (Daniel Oren) e una compagnia di canto (Aleksandra Kurzak, Pavel Petrov, Leo Nucci) dignitosa ma che parevano lì per caso. Violetta è una delle eroine operistiche con cui Zeffirelli ha dialogato più a lungo. Ha iniziato nel 1956 partecipando dietro le quinte alla celebre edizione della Scala (Giulini/Callas/Di Stefano/ Visconti) di cui cita le scene di Lila De Nobili in più oggetti: specchio e caminetto, poltroncine in midollino, falde delle coperte del letto a baldacchino. In tre ore, complici gli spazi immensi del palco e una scenografia audace, sono sfilate insieme tutte le Traviate zeffirelliane possibili. C’era il flashback (dal romanzo di Dumas) del “dopo”, il funerale di Violetta: prima dell’apertura di sipario (c’era anche quello) passa il cavallo nero che tira il carro funebre scortato dalla processione di chierichetti. C’erano le riprese cinematografiche ottenute dislocando le azioni all’interno dell’ingegnosa ma non nuova costruzione di scena: una dozzina di metri di altezza, due piani (l’appartamento privato di Violetta sopra, il salotto al piano inferiore) collegati da una scala; sei ambienti incorniciati ai lati da colonne tipo palchi di proscenio. La casa di bambole fuori misura pareva incapace di contenere le centinaia di musicisti e figuranti. Dozzine di camerieri, tappi e fiotti di champagne, invitati, ballerini, acrobati, maschere, trampolinisti: per la golosità degli smartphone. I protagonisti a volte non si distinguevano. Se non erano nei punti sbagliati, come quando Alfredo canta affacciato a un palchetto alla fine del I atto: Verdi voleva che la voce fosse dietro le quinte (il “pensiero” di Violetta); o nel finale del II atto con Violetta in secondo piano. Volendo catalogare tutti i tic e le passioni registiche in una sorta di vademecum d’autore cui contribuisce con onore Maurizio Millenotti autore di costumi ultrazeffirelliani (quindi bellissimi), e stordire gli occhi, la narrazione si intorpidisce e perde di vista la tragedia. Violetta al solito muore, e la Kurzak è convincente ma non ci importa più di tanto. Perché questa Traviata lussuosamente confezionata fotografa un desiderio del pubblico; non, come Verdi intona, una storia autentica, che deve fare male.