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 2019  giugno 22 Sabato calendario

A New York si parlano 800 lingue

«Non avremmo potuto non costruire una torre più alta», mi ha detto recentemente un professore americano, commentando il modo in cui i newyorchesi hanno scelto di ricostruire Ground Zero. Immediatamente mi è venuto a paragone il tema scelto da «Andiamo al largo. Festival di Cultura e Incontro», che a Milano (città gemella di NYC per stili e modernità) sta trovando ascolto e successo. Il commovente monumento che reca la memoria della ferita della città, e del mistero che ogni ferita porta con sé, convive con la torre che si slancia e sovrasta il male.La commemorazione del lutto e la celebrazione del trionfo vivono una accanto all’altra. Il cimitero e il podio condividono lo stesso spazio urbano e architettonico.
Le forre nere che s’affacciano sull’abisso dell’esistenza stanno ai piedi del grattacielo, segnacolo della speranza per il tempo che verrà. A mezzo metro dal silenzio di chi depone un fiore per chi non c’è più, c’è l’operoso brulicare di chi c’è ancora. È il fascino ambivalente del Nuovo Mondo concentrato in meno di un chilometro quadrato.
Mi ha colpito il senso di necessità nelle parole del mio interlocutore: non avremmo potuto non costruire. Nella sua lettura, non è stata una scelta. Non si sarebbe potuto non costruire qualcosa di più magnifico e imponente di ciò che l’inimicizia e l’odio di altri uomini avevano raso al suolo.
Non c’era alternativa alla riedificazione. Si poteva discutere (e lo si è fatto: con abbondanza di gare, appalti, proposte) cosa e come costruire nel luogo più sacro della città, ma non era possibile mettere in discussione la decisione stessa di riedificare qualcosa.
Quali fossero i nomi delle archistar selezionate per l’opera, era, tutto sommato, una questione secondaria. Era una faccenda gravata di tali carichi di significato che l’atto stesso del fare era più importante dell’oggetto della costruzione.
Il senso di necessità diventa una sensazione che percuote la pelle quando si passeggia fra la Freedom Tower e il Memorial dell’11 settembre, quando ci si fa largo fra la foresta di selfie stick nella bianca cattedrale del commercio disegnata da Santiago Calatrava, quando si arrovescia il capo per godere di quella luce irripetibile generata dall’infinita rifrazione sul vetro e l’acciaio dello skyline più famoso del mondo.
Quella luce soltanto sarebbe una ragione sufficiente per visitare New York, almeno una volta. Questo impeto irrefrenabile verso la costruzione è bellezza e maledizione di questa città irripetibile.
Forse più di ogni altra metropoli mai concepita dall’uomo, New York incarna il dramma di Babele. La vicenda di Babele non è una questione di mera tracotanza umana punita da un Dio geloso.
Quella non è che la sua versione banalizzata. Come ha spiegato il filosofo Silvano Petrosino anni fa in un libriccino prezioso, Il dramma di Babele è che la costruzione ha preso il sopravvento sui costruttori. Gli uomini erano al tal punto immersi nella costruzione che hanno perso di vista loro stessi e i fratelli uomini che avevano accanto.
«Che vita è la vostra se non avete vita in comune?»: sembra un verso scritto per Babele, il cui dramma è proprio non avere vita in comune, ma soltanto un progetto. Il breve testo biblico dice che il progetto di Babele è buono e «non impossibile», gli uomini lo portano avanti in modo concorde e senza usare violenza gli uni sugli altri, e perciò è gradito a Dio.
Il cantiere di Babele non è il teatro della violenza che sempre accompagna l’idolatria nella Scrittura. Il suo dramma è l’accecamento, l’obliterazione dell’uomo in nome della costruzione di un’opera sommamente buona.
Tutte le torri di Babele della storia sorgono in bilico fra il desiderio di un’opera buona e la perdita della vita in comune. Il Midrash è ancora più esplicito nel dettagliare la perdita del senso di una vita in comune per uomini troppo intenti a costruire un’opera investita e sovrainvestita di significato. Sui vertiginosi ponteggi, i bambini nascono e gli uomini più deboli muoiono senza che quasi nessuno se ne accorga.
Le madri interrompono il lavoro per quel tanto che basta per recidere il cordone ombelicale e attaccarsi il neonato al collo, e quando un operaio cade da quelle fatali altezze nessuno se ne cura. Viene rimpiazzato in fretta da un altro operaio al quale nessuno presta attenzione, nella misura in cui esegue le proprie mansioni.
Ma se un mattone cade, tutti piangono e si disperano, perché occorrerà un anno intero per portare in cima alla torre un nuovo mattone. La lingua, che nel racconto biblico tutti gli uomini condividono, non è veicolo di vera comunicazione fra gli uomini, fra «altri», quanto di semplice trasmissione di informazioni utili all’esecuzione del progetto.
Nei testi dell’esegesi ebraica, Dio non è in collera con gli uomini di Babele, è rattristato: «Li vedo. Si sono trasformati in macchine puntate in un’unica direzione. Li ho lasciati fare finora perché non si ingannano e non si uccidono a vicenda, ma che pace è questa in cui si è perso il valore della vita umana? Venite, scendiamo fra questi sciocchi, confondiamo le loro lingue e costringiamoli a pensare» La confusione fra le lingue è il modo in cui Dio li costringe a pensare, a uscire dallo stato di falsa pace in cui si è perso il valore della vita umana.
Lungi dall’essere un provvedimento punitivo, quello della divisione delle lingue è un intervento ristorativo, perché permette agli uomini di ristabilire, benché con fatica, le relazioni interrotte dalla disumana concordia monolingue.
Secondo alcuni esperti, a New York si parlano correntemente circa 800 lingue. Nessuna città mai concepita può vantare una varietà simile. Molte di questi idiomi sono estinti nei luoghi d’origine, e sopravvivono tenacemente in minuscole sacche metropolitane.
In certi caffè del Queens si parla una variante dell’istrorumeno nota come vlashki; nel Bronx c’è una chiesa cattolica in cui una volta al mese si celebra la messa in garifuna, la lingua di un gruppo di schiavi africani che sono finiti alla deriva nell’isola caraibica di St. Vincent e da lì si sono stabiliti in diverse parti dell’America centrale.
Ci sono comunità linguistiche austronesiane, greco-ungheresi, gujarati, franco-creole; mezzo milione di newyorchesi parla cinese, circa 200 mila parlano russo, quasi altrettanti s’esprimono in yiddish o ebraico moderno.
Nella logica di Babele, significa che le possibilità di vita in comune sono moltiplicate come in nessun’altra città al mondo.
New York vive così eternamente sospesa fra la tentazione di edificare opere che prendono il sopravvento sui costruttori e il paradossale dono divino della molteplicità di lingue per riprendere coscienza gli uni degli altri.