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 2019  giugno 22 Sabato calendario

Biografia di Pasquale Laurito raccontata da lui medesimo

Pasquale di qua, Pasquale di là. Tutti ossequienti, se non altro per via dell’età veneranda. Ma non appena tenta di farsi fotografare in un ambulacro periferico della Camera, due arcigni commessi agghindati come veterani della guerra di Crimea lo prendono metaforicamente per la collottola: «Eh no, dài, Pasquale, lo sai che non si può». Eppure da 73 dei suoi 92 anni Pasquale Laurito, decano dei giornalisti parlamentari, vive, lavora e mangia («alla mensa dei dipendenti, mai con deputati e cronisti alla buvette») dentro Montecitorio, 8-15 orario continuato, sabato e festivi esclusi. Quando il muscolo cardiaco glielo consentiva, ci si tratteneva fino a sera inoltrata. Se non ci ha mai dormito, è solo perché mantiene la sua mansardina di 30 metri quadrati ai Parioli: «Non ha la cucina. Mi nutro con il panorama di Roma che vedo dalle tre terrazze».
Il nonno del Parlamento dirige una strana testata, La Velina Rossa, trasformatasi con il tempo nel suo soprannome. Sono due fogli di stampante, 2.500 battute di indiscrezioni in corpo 22, ieri sul Pci, sul Pds e sui Ds, oggi sul Pd.
Ma se la fa pagare?
«Chi la voleva, versava 400 euro al mese. Lorde. Dal 2017 non vedo un soldo».
Quando diventò comunista?
«Nel 1945. Non volevano darmi la tessera perché bisognava avere 18 anni e io li compivo quattro mesi dopo. Lungro, in Calabria, dove sono nato, contava 6.000 abitanti. Iscrissi al Pci 800 operai e fondai la prima sezione femminile del partito, reclutando 400 compagne».
Eravate tutti comunisti in famiglia?
«No. Su sette fratelli, solo io e mia sorella Peppina. Saremmo stati nove, ma due morirono in tenera età. Mio padre Giosafat, medico e avvocato, votava Psi ed era nenniano. Viveva a Roma. Fu Anna Kuliscioff a dirgli: “Devi scendere al Sud a combattere il gozzo”».
In che modo è diventato giornalista?
«Con un foglio murale, La Riscossa, difendevo i 200 minatori della salina che ogni giorno scendevano a 250 metri di profondità. Poi, studente di Giurisprudenza a Roma, ottenni l’accesso alla Camera grazie al catanzarese Enrico Molè, deputato all’Assemblea costituente. Scrivevo per il suo giornale, Democrazia del Lavoro, di nascosto da mio padre».
Mi pare che facesse pure l’attore, di nascosto da suo padre.
«Comparsate, tipo Un giorno in pretura. Più che altro per il ricco cestino. Sa, alla pensione Natalini di piazza Esquilino mangiavo solo pasta e fagioli. Per Il bell’Antonio ebbi la parte dell’avvocato incaricato dalla Santa Sede d’indagare sul matrimonio non consumato dei protagonisti, interpretati da Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale. Schivo ma cortese lui, altezzosa e formalista lei. All’ultima scena, girata all’una di notte in piazza del Quirinale, ebbi 800.000 lire. Con due amici li sperperai al night 84 in via Emilia, dove andava Alberto Sordi. Quando papà seppe che bazzicavo i set, pose il veto: “Puoi fare tutto, ma non il cinema”».
Perché?
«Per lui era sinonimo di sesso».
E aveva ragione?
«Ebbi più avventure erotiche sulla frequentatissima terrazza di Alba de Céspedes, in via Eleonora Duse 53».
Come nacque «La Velina Rossa»?
«Fu un’idea che Tonino Tatò, braccio destro di Enrico Berlinguer, mi diede nel 1977. Ero spesso alle Botteghe Oscure. Dopo le 13, Federico Caffè entrava in segreto dal garage per venire a chiacchierare con il segretario del Pci. Non lo scrissi mai, per l’amicizia che mi legava all’economista. Fu lui a formulare il quesito del referendum sulla scala mobile, vinto purtroppo da Bettino Craxi».
Caffè sparì misteriosamente nel 1987.
«Rispetto la sua volontà. Ma ho motivi per ritenere che non si sia suicidato. Non voglio e non posso dire di più».
Prima lei lavorava a «Paese Sera».
«Lo firmava Tomaso Smith, ma di fatto lo dirigeva Fausto Coen. Certe sere scendeva in tipografia Palmiro Togliatti, leggeva un articolo e scaraventava per terra il telaio con le righe di piombo perché non rispettava la sua regola: “Soggetto, predicato, complemento oggetto”».
Fumantino, il Migliore.
«Aveva il culto della cronaca. Odiava chi anteponeva il colore all’avvenimento. “Prima il fatto, poi le lacrime”, predicava. Ma il meglio di sé lo dava nei dibattiti alla Costituente, quando duellava in latino con Benedetto Croce».
Jader Jacobelli mi raccontò che nella seduta conclusiva il filosofo invitò i presenti «a intonare le parole dell’inno sublime, “Veni, creator Spiritus”».
«Non me lo ricordo. Però rammento quando Togliatti recitò nella lingua originale un’orazione di Demostene. Croce chiese la parola: “Sapevamo che conosceva il russo, il catalano, il latino e l’italiano. Anche il greco! Onore alla Camera”. Il leader comunista andò a stringergli la mano. Un gigante. Come Alcide De Gasperi. Allora la politica era questa: cultura, scambio di idee, vivacità».
Perché poi si fece assumere dal «Globo», quotidiano della Confindustria?
«Italo Zingarelli, il direttore, mi convinse che dovevo impratichirmi in economia. A Paese Sera mi davano 500 lire a pezzo. Invidiavo chi indossava i primi montgomery: io avevo un cappotto ricavato da una coperta americana tinta di marron con il Super-Iride. Al Globo fui preso come caposervizio a 250.000 lire al mese. Così potevo aiutare sottobanco mia sorella e mio padre, ormai prossimo alla morte. Un giorno lei gli svelò quanto guadagnavo. “È la fine dei tempi!”, esclamò papà. Aveva fatto il medico gratis per tutta la vita, accontentandosi di cinque uova o un pollastro».
Oggi come se la passa?
«Con 57 anni di contributi, prendo 2.350 euro di pensione al mese».
Non certo il vitalizio degli onorevoli.
«Guardi che altrove i deputati sono trattati molto meglio che in Italia. Le polemiche sulla Casta sono di un’ipocrisia terribile. I pentastellati non sono forse una casta? Ora hanno aperto alla deroga per il secondo mandato. Vorrei essere in vita quando si concederanno il terzo».
Ma i deputati lavorano?
«Prima scappavano via il giovedì e talvolta il mercoledì. Oggi stanno fino al venerdì, non oltre le 12, però: si presentano qui con il trolley. Certo, prima del lunedì pomeriggio non li vedi arrivare».
Parlano anche loro in latino e greco?
D’Alema? Beh, l’ho cresciuto io: una intelligenza straordinaria
Salvini è il nuovo Farinacci
Vado a messa tutte le mattine
«Non riesco a capire che dicono, benché cerchino di esprimersi in italiano».
Nessun oratore alla Togliatti?
«Gli ultimi sono stati Aldo Moro ed Emilio Colombo. Anche il giovane Giovanni Goria si faceva ascoltare».
Ne avrà viste di ogni colore in 73 anni.
«Qui dentro? Hai voglia! A cominciare dalle relazioni clandestine. Tutti sapevano, tranne mariti e mogli. C’era una deputata di Firenze, prima socialista e poi socialdemocratica, soprannominata l’Angelo azzurro per le sue pose provocanti».
Come mai non s’è sposato?
«Ho seguito il consiglio di mio zio Raffaele: “Amare sempre, sposare mai”».
Gareggiava con Vittorio Orefice.
«Con la sua Velina bianca era il ventriloquo di Arnaldo Forlani».
Lui con il papillon, lei in Lacoste.
«Mica sto al telegiornale, io. Voleva che diventassimo amici. Nel giornalismo aveva un fiuto animalesco. Assimilava i miei gossip e se li rivendeva come suoi».
«La Velina Rossa» appoggia D’Alema.
«Beh, sì. L’ho cresciuto, Massimo».
Ho un amico dell’Istituto Gramsci che si sentì dire da Giuseppe D’Alema, pure lui deputato: «Mio figlio mi fa paura».
«È così. Intelligenza straordinaria. Solo il taverniere fiorentino non l’ha capito».
Chi sarebbe il taverniere fiorentino?
«Matteo Renzi, che ha preferito mettere alla Politica estera della Ue l’indefinibile Federica Mogherini. Mandaci D’Alema, no? Niente! Voleva rottamarlo. Il taverniere non sa costruire: distrugge e basta. Parla, parla... Sta sempre a parlare del suo vino. Ha il vizio capitale dei provinciali».
Però D’Alema, da vicepremier, si dissociò da una velina in cui lei chiedeva le dimissioni del portavoce di Romano Prodi, Silvio Sircana, al centro di uno scandalo per una foto compromettente.
«Io sapevo quello che pensava, su! Qui in sala stampa molti colleghi non sviluppano le notizie. Una volta ho partecipato alla commissione d’esame per i nuovi giornalisti. Al terzo tema ho rifilato un 4 e ho giurato a me stesso: mai più».
Il presidente della Camera, Roberto Fico, la convince?
«Lo distinguo dagli altri grillini. Ha la cultura del vecchio comunista venuto su alla scuola di Antonio Bassolino».
E il premier Giuseppe Conte?
«No. Però è una brava persona».
E i vice Matteo Salvini e Luigi Di Maio?
«Salvini è il nuovo Farinacci. Non confondiamolo con il Duce, per favore! Comunque non dura, dia retta a me. Quanto a Di Maio, deve ancora farsi».
Di Nicola Zingaretti non mi dice nulla?
«Non ho mai avuto la tessera del Pd».
Ho letto che lei è cattolico praticante.
«Cattocomunista. Tutte le mattine alle 7.15 sono a messa nella chiesa di Santa Maria in Via. Nella cappella della Camera ci andava solo Rocco Buttiglione».
Eppure criticò Pier Ferdinando Casini che voleva ricordare con una targa la visita di papa Wojtyla in questo palazzo.
«Montecitorio deve restare laico. Ho visto otto papi e ho tifato solo per Giovanni XXIII. La guerra fredda mi atterriva e lui ricevette la figlia di Krusciov».
Ci sarà un decano dei giornalisti nella Camera alta, anzi altissima?
«In paradiso? Aspettano me, forse».
Ma lei non ha fretta.
«Sia fatta la volontà di Dio».