La Stampa, 22 giugno 2019
Il Cara di Mineo chiude
«La data di chiusura? Non ci è stata ancora comunicata». Al Cara di Mineo sanno che tra poche settimane si chiude, ma quel «metà luglio» annunciato dal ministro dell’Interno qualche giorno fa, per chi lo dirige non è ancora nero su bianco. Che, però, il Cara presto non ci sarà più è nelle cose: dopo l’ennesimo trasferimento di migranti – 33, su un pullman che la scorsa settimana ha fatto il giro dei Cas di mezza Sicilia per «ricollocarli» -, in quello che fu uno dei Centri per richiedenti asilo più grandi d’Europa sono rimaste solo poche famiglie e alcuni uomini e donne single. Vengono quasi tutti dalla Nigeria, alcuni da Gambia, Costa d’Avorio, Ghana. Li chiamano «soggetti vulnerabili», sono quelli che devono avere le maggiori attenzioni.
Da quando è stata decisa la chiusura, il Cara si è via via svuotato con una decina di operazioni di trasferimento, passando dai 1506 ospiti del primo gennaio ai 111 di adesso. «Qui fino a qualche mese fa sembrava di stare in via Etnea a Catania», dice il direttore del Cara, Ignazio Di Salvo, mostrando il viale principale su cui si affacciano le villette che ospitano i servizi. Alle 10 del mattino è un deserto. Ci sono solo i mezzi e gli uomini della polizia che, con carabinieri, guardia di finanza ed esercito, dal 2011 si occupano della sicurezza della struttura da cui sono transitate 31.700 persone.
E non basta certo il sole implacabile dell’estate siciliana, troppo perfino per chi viene dall’Africa, per giustificare lo scenario da paese fantasma. La zona sud è stata già chiusa a febbraio, gli ultimi migranti sono nella nord. La mensa, che in passato ha servito migliaia di pasti e ora appena 50, ha tavoli e panche accatastate in un angolo; la «serpentina» all’ingresso per regolare l’afflusso è ormai inutile. Da tempo sono al minimo le attività per l’integrazione, resistono i corsi di italiano. Funziona ancora il «punto cara mamma», per l’assistenza a madri e figli, una cosa a metà tra l’attività dei servizi sociali e quella di un asilo. Il «punto famiglia» invece è chiuso. D’altronde l’ultimo ingresso di migranti al Cara, appena cinquanta, risale a dicembre 2018. Poi, solo uscite.
Nell’ambulatorio, tre sale per le visite, ci sono solo due migranti in attesa. Uno sta ritirando la sua cartella clinica, si chiama Mohammed Osman, è del Ghana. È arrivato qui un anno fa dopo essere sbarcato a Catania con altre 68 persone da una delle ultime missioni della Aquarius. Ha appena ottenuto l’asilo politico e sta per partire, in pullman di linea e senza scorte. Andrà a Rho: «Sono felice, la mia vita ricomincia». Sotto una tettoia ci sono Ibrahim e Vetir, 27 e 22 anni, anche loro ghanesi. Il loro umore è diverso perchè la loro richiesta dello status di rifugiato è stata appena respinta. Faranno ricorso ma i loro nomi sono già nella lista del prossimo gruppo in partenza: «Siamo delusi, vorremmo solo costruirci un futuro», dicono sconsolati. Il prefetto di Catania, Claudio Sammartino, assicura: «Tutti i trasferimenti sono stati fatti nei Cas della Sicilia, con umanità e nell’ottica di agevolare la vita delle persone».
All’ufficio cassa, dove consegnano i due euro e mezzo giornalieri del «pocket money», è tempo di chiusura dei conti: «Non diamo soldi ma carte telefoniche e beni materiali, dai pannolini ai vestiti», spiega l’addetto. In passato, un po’ di questi oggetti finivano nei punti vendita abusivi aperti dagli stessi migranti. «Ne abbiamo contati fino a 130 – dice un vice prefetto – ma sono stati smantellati due anni fa».
Negli anni in cui questo Cara arrivò ad ospitare 4mila migranti, vi lavoravano 500 persone. Oggi sono meno di un centinaio, quasi quanto i migranti ospitati e quanto i cani randagi censiti e sterilizzati che si aggirano tra i viali. I problemi adesso sono proprio per i lavoratori e per l’economia del territorio: «Aspettiamo due stipendi arretrati – dice un dipendente, Giuseppe Achille, sindacalista Snalv-Confsal – ma è poca cosa rispetto al fatto che tra poco saremo disoccupati. La politica si muova». La Regione Siciliana ha incontrato sindacati e lavoratori ma chiama in causa il governo di Roma.
Il sindaco di Mineo Giuseppe Mistretta è arrabbiato: «Al Viminale nemmeno mi rispondono più al telefono, allora ho chiesto aiuto al premier e al presidente della Repubblica. L’arrivo del Cara ha stravolto l’economia tradizionale del territorio, l’agricoltura. Ma ora tornare indietro è impossibile». I lavoratori chiedono un bacino occupazionale, il comune una zona franca e fondi. A settembre l’ormai ex Cara, che fu il Residence degli Aranci dei militari Usa di Sigonella, tornerà ai proprietari, l’impresa Pizzarotti. Nessuno però sa cosa accadrà a questo villaggio di 60mila metri quadri tra le campagne della statale Catania-Gela, con posti letto sufficienti a ospitare l’intera popolazione di Mineo.