Tuttolibri, 22 giugno 2019
Il successo della saga dei Florio
Nella Palermo di inizio ’800 il profumo delle spezie si mischia a quello del «cortice», la polvere utilizzata per combattere la malaria, all’odore acre della lavorazione dei pellami e del sangue della mattanza. È la città dei Florio, fino ai primi decenni del Novecento una delle maggiori potenze economiche del Paese, raccontata da Stefania Auci ne I leoni di Sicilia. Avvincente e documentato, quasi teatrale, parla di coraggio e ambizione, di sentimenti e magarìe, ed è la sorpresa di questa stagione editoriale. Ai vertici della classifica da sei settimane, quarantamila copie e otto ristampe, diritti già venduti in Germania, Francia, Olanda, Spagna, Albania e Stati Uniti: «Ancora oggi Palermo la puoi sentire attraverso il naso. In questi giorni d’estate, in via Libertà, fra giardini condominiali e ville liberty, si viene investiti dal profumo dei gelsomini, dei fiori della yucca, della terra appena annaffiata. E poi, tre volte al giorno, l’odore del pane appena sfornato» racconta la scrittrice, quasi come se tutto questo non stesse capitando a lei, in una pausa degli scrutini di fine anno. Su Instagram ammette lo stupore nel vedere nelle vetrine il suo «criaturo», l’incapacità di lasciare ai lettori semplici dediche, «io riscrivo un capitolo del libro».
La scuola, è insegnante di sostegno in un istituto alberghiero; i suoi ragazzi («in terza ce n’è uno che potrebbe diventare un bravo sommelier»); la figlia più piccola che, come un mantra, le ripete «ricordati che sei soprattutto la mia mamma»: è la quotidianità il modo che si è data per rimanere con i piedi per terra. Non è scontato se sei un’autrice siciliana cresciuta a pane e «cunti», che ha cominciato a scrivere da bambina fan fiction ispirate ai cartoni animati e ti ritrovi fra i titoli più venduti, seconda solo a Camilleri. «Ho lavorato per tre anni svegliandomi all’alba, prima del resto della famiglia, quando il computer di casa era libero. Il mio riferimento, pensando anche al prossimo capitolo della saga, è Lehman Trilogy di Stefano Massini. Ho setacciato archivi e letto tantissimo, le parti di finzione sono ancorate su fatti precisi, ho visitato luoghi e palazzi. L’emozione più grande l’ho provata al mausoleo di famiglia, al cimitero di Santa Maria del Gesù». Quella tomba, con il leone di marmo che beve, simbolo della dinastia, l’ha fatta costruire Vincenzo Florio, arrivato bambino nel 1799 da Bagnara Calabra a Palermo, in braccio alla madre Giuseppina. Dopo l’ultimo terremoto che ha squassato il paese, il padre Paolo e lo zio Ignazio, impegnati con la loro barca in piccoli commerci fra la Calabria e l’isola, hanno scelto di trasferirsi. Una storia di immigrazione e diffidenza, di enorme successo: cominciano con una bottega di spezie per diventare una delle maggiori potenze economiche del Paese. Dalla produzione del Marsala alla gestione delle tonnare di Favignana e Formica, «inventando» la conservazione sott’olio del pescato, e poi il credito, la cantieristica navale, l’estrazione dello zolfo, il settore metallurgico e chimico, la flotta mercantile.
Come si spiega il grande successo del suo romanzo?
«Credo ci sia il bisogno di sapere da dove arriviamo. I Florio sono ancora molto presenti nell’immaginario collettivo, anche se l’eredità fisica non esiste quasi più, gli edifici che ne hanno segnato l’epopea sono decadenti. Soprattutto questa prima generazione, che vive durante l’evoluzione del regno dei Borboni, fra le guerre napoleoniche e l’Unità d’Italia, era sconosciuta».
Vincenzo è un uomo ostinato, a volte rabbioso, un uomo solo al comando?
«È un personaggio, anzi una persona, con una forte carica eversiva. Per quelli come lui la solitudine è una necessità, divisi fra l’orgoglio di stare creando qualcosa di unico e la consapevolezza di essere troppo avanti. Si relaziona con gli inglesi, con pochi illuminati, ma non ha rapporti stretti. Solo è anche lo zio Ignazio, con i suoi margini di ambiguità, la capacità politica, l’amore soffocato per la cognata. Quando gestisci imprese del genere il passo dall’amicizia allo sfruttamento è breve. Sono creature fuori dal comune: nel giro di un secolo diventano i più grandi. Poi, in dieci anni, perderanno tutto».
E le donne? Giuseppina segue Paolo abbandonando la sua Calabria. Giulia sposerà Vincenzo, un sogno che pareva impossibile. Forti e “con il cuore spezzato”?
«Compatibilmente con l’epoca sono ribelli, con una grande personalità, e soffrono molto. Giuseppina subisce le scelte del marito, fino alla riforma del diritto famigliare è stato così. Vive per il figlio e percepisce come un tradimento l’arrivo di Giulia, milanese, indipendente e coraggiosa: ha la forza di fare ciò che vuole, si ostina a stare al fianco di un uomo per cui la priorità sono gli affari, la roba».
Si sente l’eco di Verga.
«Nei momenti di crisi mi sono aggrappata a lui e agli altri giganti, a Sciascia, a Tomasi di Lampedusa».
Intorno ai Florio aleggia un clima ostile, sono visti come “i sciacalli e le iene” evocati da Don Fabrizio nel Gattopardo?
«Hanno il senso dello spirito del tempo, l’intuito, ma al loro arrivo non vengono accolti bene. Sono “stranieri”, “facchini”. Il loro successo brucia le tappe e determina invidie, mentre la nobiltà che si impoverisce non accetta che la borghesia ascenda a un ruolo politico e sociale, i loro soldi “puzzano di sudore”».
Cosa è successo dopo? Un esempio come quello dei Florio resta unico.
«Oltre a loro ci sono pochi casi di imprenditoria inglese che diventa poi siciliana. Credo per ragioni storiche, umane, istituzionali. Con l’Unità del Regno si procede in maniera affrettata. La Sicilia e il meridione si vedono imporre lingua, moneta e tassazione, e le regole non condivise vengono accettate di malavoglia. La leva obbligatoria, in una economia di latifondo, toglie braccia e fa fallire tutto, l’entusiasmo iniziale si frantuma di fronte a funzionari che non capiscono i siciliani, li considerano come subalterni. E poi arriverà la mafia. Ne parlerò soprattutto nel secondo volume. Oggi che più che mai bisognerebbe tornare a parlare di condivisione, di valori democratici, di ricchezza della diversità, io mi sento una persona al servizio della Storia: chi la conosce non dovrebbe ripetere gli stessi errori».
Nel prossimo capitolo arriveranno la Belle époque, la Targa Florio e la figura di Franca, tutta questa attenzione la condiziona?
«Cerco di scrivere con leggerezza, passione e un po’ di incoscienza. Quando penso al successo e mi blocco, allora mi autoconvinco: il libro uscirà fra un anno, per allora tutti si saranno dimenticati di me».