Robinson, 22 giugno 2019
Una storia di mafia
La mafia e l’antimafia più sconosciute d’Italia si affrontano qui. In occhi scuri che non si abbassano mai. Dietro le lenti brillanti di Marianna, nei capelli neri di Arcangela, davanti a questa stazione che nel 1990 Sergio Rubini scelse per girare il suo primo, fortunato film, La stazione, appunto, e che 27 anni dopo i clan dei Montanari hanno battezzato come luogo di una strage feroce. La strage di San Marco in Lamis, 9 agosto 2017. Qui, epilogo di una faida che ha fatto decine di morti e feriti, la mafia ha trucidato il boss della mala foggiana Mario Luciano Romito, e il suo guardaspalle. Ma quel giorno sono stati giustiziati anche due innocenti, Luigi e Aurelio Luciani, di professione contadini. «Buoni come i prodotti che i loro campi producevano», come li ricordano da queste parti. Colpevoli solo di essersi fatti trovare nel posto sbagliato. Nel momento sbagliato. L’antimafia, invece, ha il volto di due donne, Marianna e Arcangela, le vedove dei fratelli Luciani. Hanno dichiarato guerra alla «principale emergenza mafiosa italiana», per dirla con le parole del procuratore antimafia Federico Cafiero de Raho. Di cui si parla poco e malvolentieri e che il Paese sembra ostinatamente rimuovere da mezzo secolo. «Ma ora ne parliamo noi». Marianna e Arcangela scelgono le parole. Due dei loro figli non ricorderanno i loro papà: uno era troppo piccolo quando gliel’hanno ammazzato. L’altro non era ancora nato. Arcangela e Marianna hanno la forza, forse l’incoscienza, di chi non ha più nulla da perdere. Tutto da guadagnare, per i loro figli, per la loro gente. I loro occhi sono quelli delle vedove di mafia destinate, loro malgrado, a diventare un simbolo. Come lo fu Rosaria Schifani, vedova di Vito, agente della scorta di Giovanni Falcone ucciso a Capaci. «Vi perdono, ma dovete inginocchiarvi davanti a me», gridò a Palermo, nel 1992, ai funerali di Stato, rivolta agli uomini di Cosa nostra. Rosaria con quelle parole tolse ogni spazio all’aria grigia. Bisognava scegliere: o insieme a lei o contro di lei. Le vedove Luciani mostrano quello stesso coraggio. A loro viene spesso chiesto: che cos’è la mafia foggiana? «Non sappiamo dirlo. E forse non spetta nemmeno a noi dirlo» rispondono. «Fino a due anni fa non sapevamo cosa fosse. Ora lo abbiamo imparato. La mafia è entrata in casa nostra, senza bussare. Con l’unico modo che conosce: la mafia uccide, ammazza. Ti toglie all’improvviso quello che hai di più caro. Ti lascia senza fiato. Ma a essere morti sono loro anche se si credono vivi. Noi siamo qui, a combattere perché Luigi e Aurelio devono riposare in pace. Perché i nostri figli devono avere giustizia. E soprattutto perché non deve accadere più». Arcangela è psicologa. Insegna filosofia in un istituto superiore. Si è interrogata più volte sul senso di ciò che le è accaduto. «All’inizio mi sono domandata: è colpa mia? Perché l’ho fatto andare via quella mattina? Perché non sono stata male, non ho avuto un po’ di febbre, non gli ho chiesto di rimanere a letto con mio figlio, che aveva dieci mesi? Mi capita, alle volte, di chiudere gli occhi e per breve istanti di essere felice. Perché rivedo davanti a me tutte le cose belle e importanti che ho condiviso con mio marito Luigi. Il problema è che quando io riapro gli occhi e ritorno nella realtà, in questa nostra realtà, a volte mi guardo intorno e ho la vaga impressione che più nulla abbia senso. E anche questo non è normale. E, soprattutto, non è giusto». Non è giusto Marianna? «Non è giusto. Io parlo tutti i giorni ai miei figli del loro padre. Devono sapere chi era, che persona straordinaria era. Ma ora serve dare un nome ai suoi assassini. I miei figli meritano giustizia. E i responsabili devono pentirsi». Nella storia della mafia foggiana i pentiti si contano sulle dita di una sola mano. Eppure a Foggia la mafia uccide con la cadenza di una volta al mese, con una ferocia arcaica, controllando ogni chilometro di questo territorio che va dal mare del Gargano alla piana di Cerignola, da Manfredonia ad Apricena. «Noi – dicono le Luciani – l’unica terra che conosciamo è questa. Quella dove abbiamo voluto questa croce per ricordare il luogo dove Aurelio e Luigi sono stati uccisi. Questa terra per anni ha raccolto sacrifici, fatica, le lacrime e il sudore di Luigi e Aurelio, dei loro fratelli e del loro padre. Quella stessa terra si è inzuppata del loro sangue. Versato per mano di criminali mafiosi che non sono degni di essere chiamati uomini». Non è un modo di dire. «È un uomo soltanto chi protegge e ama la propria famiglia. Uomo è colui che è libero di vivere e scegliere e decidere, nel rispetto delle regole e nel rispetto degli altri. Uomo è solo chi, a testa alta, sa chiedere scusa e sa chiedere perdono. I mafiosi non fanno niente di tutto ciò. Loro distruggono, brutalizzano, calpestano tutto quello che toccano. E rendono normale quello che normale non è: subire soprusi, abusi, essere uccisi. Ne è normale che di fronte a tanta violenza, noi tutti giriamo la testa dall’altra parte facendo finta di non aver visto e non aver sentito. O addirittura, peggio, raccontandoci che ormai ogni forma di violenza è parte integrante della nostra quotidianità. Non è normale, e finché agiremo pensando a ciò, le uniche cose che lasceremo in eredità ai nostri figli saranno la paura, l’incertezza, la vergogna, il nostro senso di colpa per non aver fatto niente. Noi non ci stiamo più. Ai nostri figli dobbiamo un posto migliore». Anche per questo Arcangela e Marianna Luciani, con tutta la loro famiglia e soprattutto con i ragazzi del paese che stanno dalla parte giusta, hanno fondato a San Marco in Lamis, grazie all’aiuto di Daniela Marcone, figlia di Francesco, direttore dell’Ufficio del registro di Foggia ucciso nel 1995, la prima sezione di Libera. Il prossimo nove agosto, per il secondo anniversario della strage, è stata convocata una grande manifestazione cui parteciperà don Luigi Ciotti. Lo scorso anno, davanti alla stele che ricorda la strage, a portare il loro omaggio c’erano poliziotti, magistrati, carabinieri, «i nostri angeli» dicono Arcangela e Marianna. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, era a pochi chilometri di distanza. A scattare selfie con l’allora fidanzata nel mare blu del Gargano, ospite del suo amico Massimo Casanova, patron del Papeete Beach, e neo senatore pugliese della Lega. Vi ha mai incontrato il ministro? «Mai. Di politici ne abbiamo visti pochi in questi due anni». Il premier Giuseppe Conte, che pure è nato sul Gargano, è stato a San Marco in Lamis qualche mese fa. Un’oretta per consegnare diplomi nella scuola superiore del paese. E poi via verso Roma. «Non l’abbiamo visto» concludono le due cognate che, nel dolore, sono diventate sorelle. «Noi siamo qui. La casa è sempre aperta».