Da www.adnkronos.com, 21 giugno 2019
AVREMO UN DESERTO E LO CHIAMEREMO ITALIA – “UN QUINTO DEL NOSTRO PAESE E’ A RISCHIO DESERTIFICAZIONE”, LA PIU’ MINACCIATA E’ LA SICILIA MA TUTTO IL SUD PUO’ ESSERE COLPITO - L’ALLARME SU “UNA TRAGEDIA IN SLOW-MOTION” (VIDEO) - "ENTRO FINE SECOLO IN ITALIA LA TEMPERATURA POTRÀ AUMENTARE TRA 3 E I 6 GRADI” – L’EMERGENZA SICCITA' E SUL CONSUMO DI SUOLO IN SENATO 10 DISEGNI DI LEGGE ATTENDONO DI ESSERE ESAMINATI - VIDEO -
Un quinto del territorio nazionale è a rischio desertificazione "a causa dei cambiamenti climatici con prolungati periodi di siccità, ma anche del progressivo consumo di suolo e della mancata valorizzazione dell’attività agricola nelle aree più difficili". E' quanto afferma la Coldiretti in occasione della giornata mondiale per la lotta alla desertificazione e alla siccità istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Secondo il Centro Euromediterraneo per i Cambiamenti Climatici, riferisce l'associazione, "entro fine secolo in Italia la temperatura potrà aumentare tra 3 e i 6 gradi" con un'estremizzazione del nostro clima accompagnata da precipitazioni violente alternate a periodi di aridità. Una evoluzione che, sottolinea la Coldiretti, si è manifestata in tutta la sua drammaticità già quest’anno con il primo quadrimestre dell’anno segnato da una grave siccità con circa 1/4 di pioggia in meno al quale ha fatto seguito un mese di maggio straordinariamente piovoso con grandine e temporali che hanno provocato pesanti danni alle coltivazioni.
"La siccità – precisa la Coldiretti – è diventata l’evento avverso più rilevante per l’agricoltura con i fenomeni estremi che hanno provocato in Italia danni alla produzione agricola nazionale, alle strutture e alle infrastrutture per un totale pari a più di 14 miliardi di euro nel corso di un decennio. Su un territorio meno ricco e più fragile per l’abbandono forzato dell’attività agricola in molte aree interne si abbattono – continua la Coldiretti – gli effetti dei cambiamenti climatici, favoriti anche dal fatto che l’ultima generazioni in 25 anni è responsabile in Italia della scomparsa di oltre ¼ della terra coltivata (-28%) per colpa della cementificazione e dell’abbandono provocati da un modello di sviluppo sbagliato che ha ridotto la superficie agricola utilizzabile in Italia ad appena 12,8 milioni di ettari".
"In un Paese comunque piovoso come l’Italia che per carenze infrastrutturali trattiene solo l’11% dell’acqua, occorre un cambio di passo nell’attività di prevenzione", dichiara il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare che "bisogna evitare di dover costantemente rincorrere l’emergenza con interventi strutturali".
Il primo passo è "la realizzazione di piccole opere di contrasto al rischio idrogeologico, dalla sistemazione e pulizia straordinaria degli argini dei fiumi ai progetti di ingegneria naturalistica, ma allo stesso tempo - continua Prandini - serve un piano infrastrutturale per la creazione di invasi che raccolgano tutta l’acqua piovana che va perduta e la distribuiscano quando ce n’è poca, con la regia dei Consorzi di bonifica e l’affidamento ai coltivatori diretti.
Non è pensabile che la legge sul consumo di suolo approvata da un ramo del Parlamento nella scorsa legislatura sia finita su un binario morto in attesa della discussione in Senato. Dobbiamo togliere dalla palude questa norma importante per il futuro dell’Italia e approvarla prima possibile", precisa Prandini.
"L’agricoltura è l’attività economica che più di tutte le altre vive quotidianamente le conseguenze dei cambiamenti climatici, ma è anche il settore più impegnato per contrastarli - secondo la Coldiretti - come si tratti di una nuova sfida per le imprese agricole che devono interpretare le novità segnalate dalla meteorologia e gli effetti sui cicli delle colture, sulla gestione delle acque e sulla sicurezza del territorio. Servono – conclude la Coldiretti – interventi di manutenzione, risparmio, recupero e riciclaggio delle acque, campagne di informazione ed educazione sull’uso corretto dell’acqua, un impegno per la diffusione di sistemi di irrigazione a basso consumo, ma anche ricerca e innovazione per lo sviluppo di coltivazioni a basso fabbisogno idrico".
IN DIECI ANNI CREATO UN MOSTRO GRANDE QUANTO LA VALLE D’AOSTA Francesca Santolini per la Stampa
“Considerando solo l’ultima decade, caratterizzata dalla congiuntura economica negativa e dalla caduta della produzione edilizia legale, si stima che la superficie antropizzata nei centri abitati sia cresciuta complessivamente di 3 mila km2 , un’area di poco inferiore a quella dell’intera Valle d’Aosta”. A parlare è Alessandra Ferrara, ricercatrice dell’Istat, presso la Direzione per le statistiche ambientali e territoriali, in occasione delle audizioni svolte al Senato nell'ambito dell'esame della proposta di legge sul consumo di suolo. Si tratta di dati che l'Istat sta consolidando nell'ambito del progetto di micro-zonizzazione del territorio e che saranno diffusi nel Rapporto annuale Istat, il prossimo 20 giugno.
Ma quali sono i numeri del consumo di territorio in Italia? Secondo l’approccio concettuale che l’Istat sta applicando, si misurano da un lato i luoghi trasformati pressoché irreversibilmente, cioè le superfici occupate da manufatti, e infrastrutture, dall’altro, quelle dove esiste un indiretto vincolo al potenziale d’uso antropico. Queste due componenti definiscono il territorio antropizzato complessivo che, in Italia, nel 2017, copre una superficie stimata di circa 33.500 km2,pari apoco più dell’11% del territorio nazionale, in crescita del 4,3% dal 2011. Ad ogni abitante, nel 2017 corrispondono in media 462 m2 di suolo urbanizzato, valore che risulta massimo nel Nord-Est (569 m2) e decisamente più contenuto nel Mezzogiorno e nel Nord-Ovest (rispettivamente 441 e 409 m2 per abitante).
Livelli particolarmente elevati si rilevano nelle regioni di dimensioni demografiche relativamente più contenute – come Umbria, Molise, Basilicata - dove, proprio in rapporto al ridotto peso della popolazione, emerge la pressione sul territorio. Le regioni dove troviamo più pressioni sul territorio sono il Veneto (18,3%), la Lombardia (17,6%), il Lazio (16,3%) e la Campania (14,8%), mentre scendendo nel dettaglio, a livello di pianificazione comunale, Torino, Milano, Bari e Catania sono le città in cui i tassi di crescita di superficie antropizzata sono i più elevati e superiori alla media nazionale.
In termini di sostenibilità, la fotografia scattata dal rapporto, è complessivamente ben lontano dalla “crescita zero” di nuovo suolo artificiale, attesa e sollecitata nelle raccomandazioni nazionali e comunitarie. “L’analisi dei livelli e delle dinamiche del fenomeno disegnano uno scenario preoccupante: nel Mezzogiorno, ancora meno impattato, sembrano replicarsi i processi di antropizzazione che avevano negli anni precedenti caratterizzato le aree del Centro-Nord”, prosegue Alessandra Ferrara.
Cosa fare? Attualmente, risultano presentati al Senato almeno 10 disegni di legge, in larga parte posti in discussione congiunta presso le commissioni Agricoltura e Ambiente. Nell’articolato della maggior parte dei disegni di legge sono presenti parti con disposizioni indirizzate a contenere il nuovo consumo di suolo, e parti indirizzate a promuovere la rigenerazione urbana, quale attività che, al contempo, persegua il reindirizzo del comparto edilizio verso i settori dell’efficientamento energetico, della ristrutturazione e messa in sicurezza del patrimonio esistente.
Il consumo di suolo oggi rappresenta un’emergenza che non può più essere ignorata perché “le azioni che determinano perdita di suolo naturale intaccano un capitale che non potrà essere nuovamente disponibile per numerose generazioni future e pertanto sono da considerarsi insostenibili”. La perdita di suolo libero determina conseguenze rilevanti per i servizi ecosistemici. Concretamente, a scala locale, questo vuol dire ad esempio che la popolazione vedrà incrementato il rischio idrogeologico delle aree in cui vive, a causa del mancato drenaggio delle acque, in particolare in caso di eventi estremi, che con la crisi climatica sono sempre più frequenti.
Di fatto la qualità della vita urbana peggiorerà a causa delle condizioni microclimatiche non mitigate dalla presenza di aree verdi. Non solo. A scala globale dovranno essere gestiti gli impatti derivati dalla riduzione delle superfici utilizzabili per la produzione agricola e dal mancato assorbimento di CO2 da parte dei sistemi forestali. Per questo, secondo Alessandra Ferrara, “da un lato è fortemente auspicabile attivare azioni di ripristino per quanto è già stato trasformato dall’azione antropica, soprattutto nei numerosi casi in cui l’evoluzione del tessuto produttivo e insediativo ha lasciato in eredità enormi inefficienze di impiego delle superfici, dall’altro, prevenire, in particolare dei suoli a più elevato valore ambientale e produttivo, forme di nuova artificializzazione”.