il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2019
In America il politicamente scorretto sfiora la censura. Tra le parole vietate anche «pet», potrebbe offendere i cani
America, il Paese della libertà, ma non troppo: come il cinema, la tv e le università, anche l’editoria è minacciata dalla dittatura del politicamente corretto, che espunge dalla pagina tutto ciò che è considerato sconveniente. Così è capitato a Francesca Marciano, scrittrice e sceneggiatrice (già David di Donatello per Maledetto il giorno che t’ho incontrato di Carlo Verdone), che sta lavorando a una raccolta di racconti, in uscita nel 2020 con Penguin Random House.
Signora Marciano, le hanno censurato qualcosa?
Indubbiamente c’è un incremento della vigilanza: in una similitudine in cui mi riferivo al canto dei gabbiani che risuonano come alla chiamata del muezzin, mi è stato chiesto di togliere il riferimento al muezzin e di evitare la parola moschea perché vanno usati con cautela. Altro esempio: uno dei personaggi di una festa si presenta vestito “con una gonna leopardata come Gloria Gaynor”, nota cantante afroamericana. Bene, ho dovuto togliere il riferimento a lei perché l’idea che un uomo, per di più bianco, si travesta da nero è percepito come poco rispettoso. O ancora: parlo di un abito, una gonna indiana del Rajasthan. Mi è stato detto di non descriverla così perché si tratta di appropriazione culturale. È lo stesso problema che stanno affrontando stilisti e designer che si ispirano ad altre tradizioni (vedi Carolina Herrera, accusata dal segretario alla Cultura del Messico di aver copiato indebitamente i capi dei nativi americani). Tutto ciò che riguarda altre culture è inappropriato.
Il primo degli argomenti sensibili è la religione, soprattutto musulmana…
Sì, insieme all’etnia e ad alcuni aggettivi come “grasso”. Ma la parola inutilizzabile che più mi ha sconvolto è pet, animale domestico. Stupefatta, ho cercato su Google; un articolo consigliava addirittura il sinonimo: animal companion, compagno animale.
Cioè “pet” offenderebbe la dignità animale?
Apparentemente è così; è chiaro che poi possiamo ignorarlo. Però qualcuno, più di uno in America, pensa che quell’espressione qualifichi l’animale come proprietà, mentre companion dà l’idea della convivenza con esso, senza specificare alcun padrone o possesso.
Dopo il #MeToo parlare di donne è più complicato?
Io personalmente non mi sono mai imbattuta in censure su questo. Forse, inconsciamente, sono politicamente corretta in quanto donna: scherzo… Però mi è stato chiesto di modificare una frase in cui un uomo, che amava una ragazza più giovane, sognava di averla tutta per sé: in inglese il verbo own, possedere, è malvisto e fraintendibile. Sono vent’anni che scrivo per questo editore americano, e sempre con la stessa editor, che è molto più allarmata di un tempo. Il politicamente corretto rischia di trasformarsi in censura. Da parte degli artisti c’è la paura che chiunque possa distruggerti un lavoro se, anche un singolo dettaglio, viene considerato politicamente scorretto.
Ma a chi giova allora tutta questa correttezza?
Io per prima credo nell’importanza e nel peso delle parole: eliminare le espressioni discriminatorie è un primo passo per estirpare le discriminazioni reali. Trovo inaccettabile nominare le persone in base alla loro nazionalità, come “il filippino”, “la rumena”… Dire “il bangla”, per designare il negozio gestito da una persona del Bangladesh, è poco rispettoso, così come parlare di persone di colore o no. Però c’è un limite a tutto.
Chi stabilisce il limite etico? E a che diritto o titolo?
Questo è il punto spinoso. In Italia però non siamo allo stesso livello di paranoia.
Ci arriveremo?
No, non credo. Abbiamo un carattere diverso, siamo più tolleranti ed elastici.
Altri aneddoti censori?
Una agente si è sentita rifiutare un manoscritto perché il protagonista era un misogino e quindi impubblicabile. Peccato che il romanzo fosse ambientato nel V secolo in Persia! Spesso c’è mancanza di cultura: tutto va contestualizzato; altrimenti rischiamo di cancellare la storia.
Il sesso resta un tabù? Penso agli amori loliteschi o alle minoranze Lgbt.
C’è una politica di enorme rispetto per le minoranze. Ma il limite è sottile, oltre si sfocia nella bigotteria. I giovani, però, non si sorprendono delle censure: ci sono nati dentro.
A Hollywood, sul set, hanno introdotto la figura del “garante del sesso”: c’è un corrispettivo nell’editoria?
Non saprei: non credo che il problema sia il sesso in sé, ma la discriminazione o quello che è giudicato tale. Ad esempio, un bianco non può scrivere di un nero o di un messicano… E si arriva al paradosso: noi scrittori dobbiamo inventare storie, ma solo quelle che riguardano noi stessi. Come se un uomo non potesse scrivere di donne: quindi cancelliamo Emma Bovary, Anna Karenina e gran parte della letteratura? È ridicolo, se non pericoloso.