Corriere della Sera, 21 giugno 2019
strage di Viareggio, Moretti non si spiega la condanna a 7 anni
«Amareggiato». «Scosso». Mauro Moretti, 65 anni, ex amministratore delegato di Ferrovie dello Stato e prima di Rete ferroviaria italiana (infine di Leonardo fino al 2017), ha saputo dal suo avvocato Armando D’Apote della conferma della sua condanna a sette anni da parte della Corte di appello di Firenze nel processo sulla strage ferroviaria di Viareggio.
Quell’aula in cui i parenti delle vittime hanno coperto 32 sedie con altrettante magliette, ciascuna con l’effigie di ognuno dei congiunti scomparsi il 29 giugno di dieci anni fa; quell’aula in cui pure si è seduto durante il dibattimento per protestare la propria innocenza e «per questo» rinunciare alla prescrizione, ieri Moretti non l’ha voluta vedere. Così non ha assistito neppure ai pianti e agli abbracci dei parenti delle vittime quando il verdetto è stato pronunciato.
Sette anni per Mauro Moretti, imputato per disastro, omicidio plurimo colposo, lesioni colpose e incendio. Con due novità rispetto alla sentenza di primo grado del Tribunale di Lucca: da una parte il manager è stato condannato non solo come ex amministratore delegato di Rfi, la controllata che gestisce i binari, ma ora anche come ex ad di Fs, cioè la capogruppo che controlla Rfi e Trenitalia (la società che fa circolare i treni). Dall’altra parte, la Corte d’appello ha assolto il gruppo di direzione tecnica di Rfi che in primo grado aveva riportato molte condanne.
Così, nei primissimi ragionamenti fatti con i suoi collaboratori, seguiti allo choc iniziale, dopo aver messo da parte l’irritazione per certi commenti sulla sentenza, come quelli trionfalistici di alcuni membri del M5S, si sono cominciate a fare strada alcune perplessità. La domanda che circolava fra il manager e le persone a lui più vicine è come sia possibile «condannare il vertice di un’azienda che ha preso delle decisioni organizzative di carattere generale» e assolvere invece i tecnici, cioè chi materialmente ha agito, decidendo di volta in volta come applicare al caso specifico tali decisioni necessariamente generiche? E ancora: se questi tecnici invece sono stati assolti perché quel carrello maledetto che provocò l’esplosione era stato fornito fallato da una ditta straniera, che aveva presentato un certificato di revisione truffaldino, cosa avrebbe potuto fare di più il vertice dell’azienda?
Domande che reggeranno probabilmente il prossimo e ultimo ricorso, quello in Cassazione. Intanto qualcuno ieri, nell’entourage vicino a Moretti, si sarebbe spinto fino al punto di definire «politica» la sentenza. Politica perché non tecnica, in quanto prescinderebbe dal fatto in sé, basandosi invece su «una sorta di automatismo», previsto da una norma del 2001, per cui, se avviene un disastro in un’azienda, questo va riportato per forza a una «responsabilità oggettiva» dei suoi vertici apicali. A meno che i vertici non dimostrino di aver assunto «modelli organizzativi» idonei a evitare quel danno. Una norma che garantisce a chi la applica l’individuazione certa di un «capro espiatorio».
Il manager non avrebbe fatto propria questa definizione ma ne avrebbe sottoscritto in qualche modo il ragionamento sottostante sulla responsabilità oggettiva, su «quella norma così perfetta per un Paese di don Abbondio», un riferimento a quelli che non si assumono le proprie precise e dirette responsabilità. La stessa norma, del resto, era stata esplicitamente richiamata nella condanna di primo grado in base alla quale Moretti aveva appreso che la sua responsabilità di amministratore di Rfi, cessata tre anni prima del disastro, per i giudici poteva estendersi fino alla data dello stesso.
Al manager ora non resta che attendere. E parare i colpi. Il M5S ieri ha chiesto che Moretti rimetta il Cavalierato conferitogli dall’ex presidente Giorgio Napolitano.