la Repubblica, 21 giugno 2019
Rileggere Dickens
Non amare Dickens è un peccato mortale: chi non lo ama, non ama nemmeno il romanzo; e non capisce che l’arte dell’Ottocento ha forse raggiunto il suo culmine quando ha mescolato il folle riso con la più imperterrita discesa nelle tenebre. Dostoevskij e Tolstoj, Conrad e Joyce, Kafka e Dylan Thomas lessero Dickens con la passione, l’entusiasmo e «l’incoerente “gratitudine” che egli richiede da ciascuno di noi». Vissero insieme a lui: abitarono dentro di lui, come si abita nella propria casa; e appresero da quel «rozzo romanziere popolare» i più sottili artifici letterari.
Se il XIX secolo fu un tempo di “mostri” letterari, Dickens fu il più misterioso di questi mostri. Nessuno possedette il suo fiducioso candore e la sua bonomia e nessuno fu più allucinato: nessuno conobbe come lui la vita colorata e felice di ogni giorno e nessuno si inoltrò con tale fervore nel regno delle tenebre: era luminoso e notturno: superficiale e profondo: abitava soltanto con gli uomini reali e parlava soltanto con gli spettri: era lieto e pieno di orrori; gioioso e divorato dalle ossessioni. Oggi, la qualità della sua immaginazione ci riesce stranissima. Nulla la distingue da quella dei grandi creatori, Shakespeare o Cervantes: eppure era, al tempo stesso, la fantasia narcisistica ed euforica dei suoi giovinastri, la fantasia ciarlante delle sue donne, la fantasia megalomane di Micawber, la fantasia cialtronesca dei mediocri guitti, degli osti e dei vagabondi, che attraversano lo spazio dei suoi libri. Così possiamo chiedere a Dickens le cose più contrastanti: i prodigi dei sogni e delle Mille e una notte, e le più atroci volgarità giornalistiche. Un delizioso e sfacciato romanzo di burattini diventa sotto i nostri occhi un arduo romanzo simbolico; e dei pupazzi finiscono per rivelarci le più inquietanti verità del cuore. L’ultimo paradosso non ci stupisce. I suoi libri possono insegnare le astuzie più truculente ai romanzieri popolari; e le più rare astuzie letterarie agli scrittori sperimentali.
Le lettere e la biografia di John Forster non ci rivelano molto di Dickens. Ci viene incontro un giovane autore alla moda, con sguardi graziosi, fluenti riccioli, panciotti colorati e abiti alla dandy che offesero gli americani. Aveva tutte le qualità che si ritengono necessarie a uno scrittore di romanzi: un’immensa avidità di vita, una memoria che gli riportava i più lontani momenti dell’infanzia, un istantaneo senso del comico. Che fosse instabile, isterico, istrionico, esibizionista, non poté che giovargli; e la sua nevrosi era quasi sempre controllata da una volontà di ferro. Come a Balzac, scrivere romanzi non gli bastava. Allora si affannava a mettere in scena drammi, a fare conferenze sull’educazione, a soccorrere le ragazze perdute; e progettò dei giornali dove – scrisse Chesterton – si sarebbe moltiplicato: come impiegato che apriva la corrispondenza, direttore che scriveva gli articoli di fondo, reporter che redigeva le corrispondenze politiche, critico che analizzava i libri. Il suo amico Carlyle disse crudelmente che «la qualità di attor comico era la sua dote fondamentale».
Qualcuno dice che non amò nessun essere umano; e che i suoi rapporti con il pubblico furono «la più importante storia d’amore della sua vita». Temeva di perdere quel successo che aveva conquistato così improvvisamente. Ma il successo non lo deluse mai, e a volte divenne favoloso. Faceva dei tours spossanti, leggendo, inscenando, recitando pagine dei suoi romanzi; le leggeva con una terribile partecipazione nervosa – ansia, orrore, attrazione. Impazzì d’isterismo, le signore svenivano, mentre i suoi nervi si spossavano.
Tra i protagonisti giovanili dei suoi romanzi – Oliver Twist, Nicholas Nickleby, Martin Chuzzlewit, David Copperfield – nessuno possiede il genio di Dickens (nemmeno quel cattivo scrittore che deve essere stato David Copperfield) e la sua avidità vitale, il suo egotismo, la sua insaziabilità, la sua disperata energia. Tutti hanno una qualità comune: sono lievemente passivi: adattabili, malleabili come cere: tutti o quasi tutti sono candidi e ingenui; e a volte sembrano sul punto di scomparire dal libro costruito intorno a loro.
Il più famoso tra questi personaggi giovanili, David Copperfield, diventa amico di Steerforth, la prima immagine di Stavrogin, l’eroe dei Demoni di Dostoevskij. Steerforth incarna il fascino aristocratico: il suo sguardo splendente che illumina le cose, la grazia, l’eleganza, il dono di far tutto senza fatica, l’arte di concedersi senza darsi, e l’indescrivibile leggerezza attraggono ogni cuore. Come quella di Stavrogin la sua anima è vuota e gelida: dominato dal tedio, insegue sensazioni sempre più frenetiche.
Il giovane Copperfield – l’orfano, il non amato, che non possiede nessuna delle qualità di Steerforth – lo ama con una travolgente passione femminea. «"Tu hai una sorella, vero?” disse Steerforth, sbadigliando. No, rispose. “Peccato” disse Steerforth, “se tu l’avessi, mi pare che dovrebbe essere una bella bambina timida e piccolina, dagli occhi luminosi.
Mi sarebbe piaciuto conoscerla”». Il fascino di quell’angelo colpevole dalle grandi ali nere ancora bagnate di luce, travolge senza limite David, felice di essere un oggetto infantile nelle mani di lui.
La sera Steerforth, disteso sul lettuccio del collegio Salem, non riesce a prendere sonno; e David gli racconta, confondendoli e mescolandoli l’uno con l’altro, tutti i libri che aveva letto, come la sultana Shahrazad inganna la morte raccontando al suo signore le complicate storie d’Oriente. L’istinto fabulatorio di David Copperfield nasce così: nella notte e nell’ombra, dal cui alone romanzesco resta fasciato; dal desiderio dell’orfano femmineo di vincere l’esclusione, dall’ansia di salvarsi, servire e adorare, propiziandosi l’angelo protettore. Questa storia rivela uno degli archetipi nell’anima di Dickens. Egli scoprì in se stesso, e nel tempo che lo circondava, una figura affascinante, avvolta di luce e di tenebra. Estrasse da sé quella figura: la mise in alto, e trasformò il terrore dell’esclusione nel piacere insaziabile di raccontare. Per non essere abbandonato, volle «affascinare il fascino»: stregare l’angelo colpevole, sotto la cui ombra simbolica la sua arte era cresciuta.
In cinque romanzi molto diversi, Il circolo Pickwick (1836-37), La bottega dell’antiquario (1840-41), David Copperfield (1849-50), La piccola Dorrit (1855-57) e Grandi speranze (1860-61), siamo colpiti dal ritorno di alcuni motivi. Nel primo libro, la piccola Nell è posseduta dal desiderio ossessivo di immobilità e dal desiderio di morte, nati dal suo amore edipico verso il nonno. Vorrebbe che nulla cambiasse. Alla fine del libro, trova il paese della sua anima: un cimitero, una chiesa, una casa appartenuta a un convento, una popolazione di vecchi: chi semina i fiori scava anche le fosse. In questo eliso sinistro, spalancato sulla terra, Nell può scivolare di là, lentamente e soddisfare il suo desiderio profondo, contemplando la vita con sguardi che salgono dal grembo della morte.
Il sogno del piccolo David Copperfield non è diverso. Egli vuole vivere solo insieme alla madre-bambina, senza crescere mai, presso la tomba del padre. Questa è la più incantevole delle condizioni: né la madre né il figlio debbono crescere; e se bisogna avanzare lungo il cammino dell’esistenza, la madre dovrebbe morire giovane, per restare bambina almeno nel ricordo.
Questi motivi culminano nel mirabile inizio delle Grandi speranze. La casa di Miss Havisham ha le finestre in parte murate o chiuse da sbarre di ferro rugginose: tutto è abbandonato: non penetrano i raggi del sole, poche candele gettano una debole luce invernale sugli orologi fermi. Miss Havisham è vestita di bianco, con il lungo velo bianco, le scarpette bianche, i fiori bianchi da sposa, ma il vestito, le scarpe, il velo e i fiori, sono ingialliti e avvizziti come la sua pelle, mentre sul fondo delle orbite gli occhi splendono di una luce folle. In una stanza chiusa e soffocante, sopra una tavola sta una grande torta di nozze, ammuffita, coperta di tele di ragno e di blatte, divorata dai topi.
Tanti anni prima, Miss Havisham era stata abbandonata il giorno delle nozze. Da allora aveva chiuso la casa, fermando gli orologi, e uccidendo il tempo; e come una strega di Lucano, ora regna sulla notte, la reclusione, la ripetizione, l’immobilità delle ore, l’odio verso l’amore e la vita. Forse siamo vicini a uno dei misteri di Dickens. Nel suo cuore abitava un’altra Miss Havisham, desiderosa come lei di fermare il tempo, di arrestare la luce, di rinchiudere l’universo nel carcere dell’ossessione.
Quante persone in fuga, col timore di essere inseguite e raggiunte: arrivate da non so dove, procedono verso non so dove, trascinate dalla fame, dalla paura, dall’ansia, alla ricerca di un focolare che non troveranno mai. Vecchi attraversano Londra nelle ore della notte. Chi insegue la nipote perduta, chi vuole morire.
La piccola Nell lascia Londra; e il suo viaggio spettrale avviene in uno spazio senza nomi. Il passo sempre più incerto è accompagnato dal delirio: leggeri incidenti ai quali non pensa mai, visi intravisti e fino a quel momento dimenticati, parole intese senza prestarvi attenzione, – riemergono tutti insieme nella sua mente, mentre qualcuno, in lei, osserva e chiede, come se una voce estranea le risuonasse nelle orecchie.
Quando David percorre le strade polverose verso Canterbury, subisce gli assalti degli abitanti del sottosuolo – vecchi rigattieri ubriachi, vagabondi che gli strappano dal collo il fazzoletto di seta – e conosce l’orrore di precipitare nell’abisso, tanto fragile e minacciato è il suo mondo e il mondo di tutti. In ogni libro risuona il passo del re Lear e del suo fool.