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 2019  giugno 21 Venerdì calendario

Happycracy, quando la felicità fa danni


C’è poco da esser contenti. Una dittatura trasversale che si presenta con il sorriso è diventata onnipresente nella nostra quotidianità: dal luogo di lavoro ai criteri della politica, dalle relazioni personali fino alla vita psichica. È la ricerca della felicità, l’obbligo a farne la componente fondamentale dell’immagine che abbiamo di noi e del mondo. Uno stato d’animo che la scienza della felicità o Happycracy – titolo di un saggio dello psicologo Edgar Cabanas e della sociologa Eva Illouz pubblicato da Codice – ritiene sia misurabile come un parametro vitale e di cui noi saremmo i diretti responsabili. L’ideologia della felicità, nata negli Stati Uniti e poi esportata, è alimentata da un’industria che opera in accordo con la ricerca scientifica e la complicità di life coach, psicologi, celebrità alla Oprah Winfrey, app per smartphone, enti privati, arrivando a coniare nozioni pseudoscientifiche quali Felicità interna lorda – o GHP (Gross Happiness Product) – di una nazione. In Happycracy Cabanas e Illouz mostrano le conseguenze dell’assillo della felicità che riassumono in questa intervista.
Che cosa ha portato a considerare la felicità l’aspirazione fondamentale del buon cittadino?
«È stata fondamentale la comparsa, due decenni fa, della psicologia positiva. Questo movimento affermava che la felicità era solo questione di scelta personale e che ognuno, con l’aiuto di esperti e lavorando sul pensiero e le proprie emozioni, potesse diventare felice. E che una vita normale, funzionale e in salute, non dipendesse dall’assenza di disagi o dal sentirsi bene, ma dalla ricerca costante volta a sentirsi più felici. Nonostante abbiano dimostrato che queste ipotesi siano più ideologiche che scientifiche, sono state assimilate dall’industria che ha così potuto promuovere la bontà delle proprie merci emozionali come dimostrata scientificamente».
Nel saggio affermate che la crisi economica del 2008 è stata un acceleratore nello sviluppo di questa scienza.
«Più di dieci anni dopo, molti effetti della crisi sono diventati cronici. Il senso d’incertezza, l’assenza di possibilità, l’ansia del futuro hanno messo radici e il richiamo a ritirarci in noi stessi ha trovato il terreno ideale per proliferare nella mente delle persone. Così la crescente domanda e offerta di terapie, servizi e prodotti della felicità dovrebbe essere vista come causa e sintomo di una tendenza culturale a guardare dentro noi stessi alla ricerca delle chiavi psicologiche e della volontà necessaria per superare le incertezze».
La diffusione di tecniche quali la Mindfulness rientra nella tendenza?
«Sì, perché trasmette il messaggio che rivolgere le nostre priorità all’interno sia la via più efficace per prosperare e affermarsi in una realtà tumultuosa e frenetica. Come molti altri prodotti sul mercato sostenuti dagli esperti della felicità, la Mindfulness trae forza dalla promessa di agire da panacea per i problemi endemici delle società neoliberiste. E insiste sul fatto che le radici dei problemi siano da trovare negli individui, invece che nella realtà socioeconomica».
La felicità è diventata un prerequisito per i lavoratori?
«Nel libro facciamo vedere come la felicità sul posto di lavoro sia diventata una strategia utile per giustificare implicite gerarchie organizzative di controllo e la sottomissione alla cultura aziendale.
È un paradosso perché, se la felicità al lavoro promette maggiore responsabilizzazione ed emancipazione dal controllo aziendale, la realtà mostra come promuovere la felicità abbia ottenuto il contrario. È comoda per spingere il livello di responsabilità verso il basso, rendendo gli impiegati più responsabili sia del proprio successo o fallimento che di quello aziendale.
Ed è stata un’alleata per ottenere maggiore impegno e risultati dai lavoratori, in cambio di riconoscimenti irrilevanti. Ciò che fa felici le aziende non rende necessariamente felici i lavoratori».
Sul piano psicologico qual è stato il danno provocato?
«La ricerca della felicità è insaziabile e implica un grave paradosso: la felicità, la cui vocazione sarebbe di realizzare un’identità sviluppata e una vita soddisfacente, è costretta a generare un racconto di mancanza che colloca gli individui in una posizione in cui qualcosa è sempre mancante: se non altro perché una felicità assoluta, o uno sviluppo personale completo, resteranno irraggiungibili. E ciò ha creato una tipologia di “cacciatori di felicità”, di “happycondriaci” fissati con il loro sé e preoccupati di cancellare ogni macchia della loro vita».
La dittatura della felicità compromette la solidità delle reti umane?
«Con la ricerca della felicità personale perdiamo la capacità di impegnarci per altro oltre che per noi stessi. Perché è un concetto individualistico e la sua ricerca produce uno stile di vita ossessivo in cui l’unica preoccupazione è per la nostra vita psichica. E questa è una cattiva notizia, psicologica e sociologica. Nel primo caso perché l’interiorità non è un luogo in cui vorremmo vivere costantemente. Gli studi hanno dimostrato che l’eccessiva concentrazione su di sé è legata ad alti livelli di ansia, depressione, stress, narcisismo e frustrazione. Da un punto di vista sociologico l’interiorità non è un luogo dove si possano conquistare cambiamenti sociali rilevanti. La felicità non è soltanto un’emozione conformista, promuove anche la credenza pericolosa che nei momenti difficili ognuno debba preoccuparsi per sé solo, e che ognuno ottenga ciò che meriti. La felicità rende responsabili della propria esistenza facendoci credere che sia una scelta, ma c’è un lato oscuro nel messaggio. Se la felicità è una scelta, logica conseguenza è che anche la sofferenza lo sia. Se i depressi, i falliti, i drogati, i malati, i disoccupati non sono soddisfatti, è perché non hanno provato abbastanza».
Qual è il collegamento tra felicità, autenticità e social media?
«Per gli adolescenti la felicità è diventata un imperativo. Devono a ogni costo essere e mostrarsi felici e questo supera qualunque frontiera culturale, sociale e razziale: permea le nuove generazioni in modo indiscriminato. C’è una richiesta opprimente di creare e poi comunicare via social una versione di sé solo positiva».
Cominciamo a criminalizzare le emozioni negative?
«La scienza della felicità ha venduto l’idea che le emozioni possano essere divise tra positive (buone), e negative (cattive). Una divisione netta dimentica che, quando si tratta di emozioni, se vogliamo capirle davvero non si possono separare. La rabbia può portare a scelte distruttive, infliggere umiliazioni, ma permette di sfidare l’autorità e di rafforzare i legami interpersonali davanti a ingiustizie o minacce condivise. Gli scienziati della felicità dipingono frustrazione, risentimento e odio come fallimenti nella formazione della psiche, ma sono emozioni fondamentali per la costruzione di dinamiche sociali quali i movimenti collettivi e la coesione dei gruppi. L’ideologia della positività diventa così uno strumento politico conservatore».