21 giugno 2019
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Biografia di Klaus Maria Brandauer
Klaus Maria Brandauer (Klaus Georg Steng), nato a Bad Aussee (Stiria, Austria) il 22 giugno 1943 (76 anni). Attore. Regista. «Certo, per tutti è l’Hendrik di Mephisto. O il marito di Meryl Streep in La mia Africa. O ancora il supercattivo che contende Kim Basinger a Sean Connery-007 in Mai dire mai. Però Klaus Maria Brandauer è soprattutto un attore di teatro, anzi un grande attore di teatro: colonna (dal ’72!) del Burgtheater di Vienna, che sta alla prosa tedesca come la Comédie-Française a quella francese, Amleto più di cento volte, leggendario Jedermann sulla piazza del Duomo di Salisburgo e nel resto del mondo» (Alberto Mattioli). «Se interpreto ruoli diabolici, è perché finora non ho incontrato angeli fra di noi. Siamo tutti sbagli della natura, siamo tutti condannati a sbagliare. Perché tutti noi viviamo» • «Fino ai sei anni ha vissuto insieme ai nonni ad Altaussee, una località di villeggiatura stiriana dove amavano passare i mesi estivi anche Sigmund Freud e Hugo von Hofmannsthal. Poi ha seguito i genitori in Svizzera e in Germania. Del padre Georg Steng si sa poco: era tedesco e faceva il doganiere. La madre, Maria Brandauer, così come la nonna, sono invece figure molto amate e spesso citate. Per loro il bambino che si chiamava Klaus Georg Steng è diventato Klaus Maria Brandauer» (Andrea Affaticati). «I primi ricordi che ho della mia vita sono suoni, non parole. Non so dire se già nella pancia della mia mamma sentivo dei suoni, ma ricordo la teiera che bolliva, gli uccelli e, la notte, la voce di mia mamma che mi chiamava "Klaus, sei sveglio?" e poi mi baciava. Sono cresciuto in una famiglia musicale: c’era chi suonava la chitarra, chi il piano. Da bambino facevo sempre dei viaggi con i miei genitori. Mio padre è tedesco, mia madre è austriaca. Un anno andammo sul Lago di Garda in tenda, così una sera i miei presero i biglietti per l’Arena di Verona. Eravamo in gradinata, in alto in alto: accesero le candeline, cominciò l’opera e c’era Franco Corelli che interpretava Mario Cavaradossi nella Tosca! Mi girai verso mio padre e gli dissi: "Un giorno lo farò anch’io!". Adesso […] non faccio il tenore, ma l’attore. Mi piace che un cantante mi parli, che un musicista mi racconti una storia, che un attore sappia anche cantare. Mi piace molto lavorare con la musica» (Susanna Franchi). «Che sia nato attore lo capisce molto presto. Dopo la maturità si iscrive all’Accademia di musica e arte drammatica di Stoccarda, ma l’abbandona dopo un anno. “Non ho mai pensato di fare altro che recitare. Così, quando presi la decisione di lasciare l’Accademia, mia madre mi incoraggiò, e mia nonna, con la tipica saggezza di chi ha passato gli ottanta, mi regalò la sua esperienza, il buon senso della persona semplice, di campagna”. Sorretto dalla convinzione che la tecnica l’avrebbe appresa sul palcoscenico, a soli diciannove anni Brandauer debutta a Tubinga in Misura per misura di Shakespeare, nella parte di Claudio. […] Dal 1972 Brandauer è membro stabile del Burgtheater. Nell’83 viene chiamato dal Festival di Salisburgo a interpretare Jedermann di Hugo von Hofmannsthal. Un ingaggio che rappresenta per ogni attore di lingua tedesca una sorta di coronamento della carriera. È infatti dal 1920, anno di nascita del Festival, che la parabola del ricco peccatore infine redento inaugura sul sagrato del duomo di Salisburgo la sezione prosa. Nell’89, al Burgtheater, riesce finalmente a interpretare il ruolo che ha sempre sognato: Amleto. È la consacrazione. Brandauer è ormai l’attore principale del più importante teatro austriaco» (Affaticati). Nel frattempo, Brandauer aveva conquistato anche fama di grande attore cinematografico. «La testa liscia, il volto bianco, gli occhi segnati da un pesante trucco nero, le labbra rosso sangue. È Hendrik Höfgen nei panni di Mephisto, ovvero Klaus Maria Brandauer nel film dedicato all’attore tedesco che vendette l’anima al regime nazista. Una storia vera, tratta dall’omonimo romanzo di Klaus Mann, che di Höfgen, cioè del celebre Gustav Gründgens, era stato molto amico e cognato. A Brandauer l’idea che […] venga sempre e quasi solo citata questa interpretazione non va. Già quando nel 1982 il film di István Szabó trionfava a Cannes e vinceva l’Oscar, ripeteva un po’ stizzito: “Si sono accorti ora che sono bravo. Ma io lavoro da quando avevo diciannove anni, sono sempre stato bravo”» (Affaticati). «"Mephisto è stato il lavoro più impegnativo della mia vita", racconta Brandauer. "Con Szabó non pensavamo che avrebbe preso tanti premi. Subito dopo abbiamo deciso di farne una trilogia, dedicata alla cultura mitteleuropea, che ha poi compreso Il colonnello Redl e La notte dei maghi". Un trittico di personaggi realmente esistiti, che vissero in prima persona la crisi dell’Europa fra le due guerre e furono vittime di forze più grandi. Ma negli stessi anni Brandauer interpreta anche la parte del cattivo in Mai dire mai (1983), con Sean Connery nei panni di James Bond; poi è un ex pugile russo in Fuori i secondi di Joe Roth, quindi lavora a fianco di Robert Duvall in La nave faro di Jerzy Skolimowski, seguìto ancora da un nobile cinico, accanto a Faye Dunaway, in Bruciante segreto di Andrew Birkin, prima della nomination all’Oscar quale miglior attore non protagonista per La mia Africa» (Rita Celi). «In seguito cade nell’oblio e debutta nella regia, senza convincere, con L’orologiaio (1990), tratto da un romanzo di S.S. Monaco, in cui è un antinazista che vorrebbe uccidere Hitler» (Gianni Canova). «Brandauer ha scelto di raccontare […] la vera storia di Georg Elser, orologiaio bavarese, che nel 1939 fabbricò una bomba per uccidere Hitler: per soli sette minuti lo mancò, facendo morire però dodici persone. Fu rinchiuso in un campo di concentramento, trattato benissimo, e lì morì nel 1945: Hitler lo tenne in vita per dimostrare la sua immortalità ed anche perché era un proletario, quindi per lui non contava niente» (Natalia Aspesi). «Un personaggio […] non solo sconosciuto, questo Georg Elser, ma rimosso e nascosto. Un personaggio che sullo schermo ha prodotto un Brandauer diverso, che deve nascondersi e agire silenziosamente più che esibirsi e troneggiare come aveva sempre amato fare. “Mi sono deciso a fare questo film come regista anche per cambiare, per uscire dai cliché. Sono stato Mephisto, Redl, Hanussen, tutte persone di posizione socialmente elevata, colte, intelligenti. […] Ho voluto fare un film sulla classe inferiore, sui milioni di persone senza nessuna importanza che esistono nel mondo e che rappresentano la dignità dell’essere umano. E ho voluto parlare del passato del mio Paese, perché senza un passato un Paese non ha futuro. […] Ho voluto fare un film in cui la gente potesse anche divertirsi, un film in cui, anche se tutti sanno che il protagonista fallirà, sino alla fine siano portati a sperare che riesca”. La suspense non manca, infatti, in Georg Elser, anche se spesso vanificata da una sceneggiatura e un montaggio non proprio scorrevolissimi» (Alberto Farassino). «Sebbene l’autore dica che Georg Elser “è un inno alla resistenza di un piccolo individuo di fronte a una macchina del terrore apparentemente onnipotente”, la sensazione è quella di un’ennesima occasione, per Brandauer, di dimostrare la bravura d’attore, ma anche il suo gigionismo» (Gianni Rondolino). Parallelamente Brandauer continuava a recitare anche a teatro, ambiente nel quale tuttavia il suo carattere gli procurò spesso scontri e dissidi. «Il suo rapporto con il tedesco Claus Peymann, per tredici anni direttore del Burgtheater, è sempre stato difficile. […] Brandauer riuscì a far slittare la rappresentazione di un Cyrano di Bergerac, che andò in scena solo quando Peymann se ne fu andato dal Burgtheater. Da parte sua, Peymann cercò di vendicarsi raccontando in un talk-show televisivo che Brandauer era stato visto passeggiare con Haider sulle rive del lago di Altaussee. Col Cyrano Brandauer tornò a vivere dopo sette anni. Nell’autunno del 1992 era morta sua moglie, la regista televisiva Karin Müller, con la quale era stato sposato per trent’anni. In sette anni aveva lavorato poco (il film Mario e il mago, la regia de Il paese del sorriso di Lehár – “l’operetta più amata da mia madre” –, infine la pièce teatrale su Albert Speer), senza convincere la critica. Si era ritirato sempre più nella casa di Altaussee. Ad Altaussee aveva frequentato gli amici di vecchia data, aveva curato il festival estivo di poesia nato per sua iniziativa. A Vienna, nella casa vicina al Rathaus, era tornato di rado, per lo più per i seminari all’Accademia di musica e arte drammatica. Sembrava avere ormai imboccato il viale del tramonto. E invece durante la preparazione di Speer aveva incontrato Uta Grünberger, una giornalista tedesca. […] Poi era arrivata la proposta di Charles Matton di interpretare il ruolo principale nel film Rembrandt. Brandauer aveva accettato» (Affaticati). Nei panni dell’artista, Brandauer «è viscerale, sanguigno, immenso. Ha il ghigno beffardo dell’uomo che sfida la società del suo tempo, che rifiuta di vedere la realtà come gli altri (i nobili, i mercanti…) la vedono; e anche lo struggimento di chi dalla vita ha avuto in sorte troppi lutti. […] Anche Brandauer è sopravvissuto a un grande lutto, quello di sua moglie. "Cercherò di servirmi del dolore che ho vissuto", ha detto l’attore ai Matton prima di affrontare il suo personaggio. "Volevo un attore che fosse terribilmente eterosessuale", dice il regista. […] "Non parlo ovviamente di scelte sessuali; parlo di aspetto, di energia. Brandauer ha la stessa angoscia esistenziale, lo stesso eccesso di sensibilità di Rembrandt"» (Laura Putti). Da allora, oltre ad aver preso parte ad alcune produzioni cinematografiche, tra cui Druids – La rivolta di Jacques Dorfmann, Cuori estranei di Edoardo Ponti, Segreti di famiglia di Francis Ford Coppola e La caduta di Wilhelm Reich di Antonin Svoboda, Brandauer si è dedicato principalmente al teatro, senza tuttavia rinunciare a ingaggiare nuovi scontri. Nel 2011, per esempio, «il regista lettone Alvis Hermanis, una delle figure più importanti del nuovo panorama teatrale europeo, ha licenziato Klaus Maria Brandauer dal ruolo di protagonista dello spettacolo teatrale Terra lontana, da un testo di Arthur Schnitzler, […] in scena al Burgtheater di Vienna. Dopo un litigio scoppiato durante le prove dello spettacolo, il celebre attore austriaco è stato allontanato, con le maestranze e gli attori che approvavano applaudendo. Il laconico commento di Hermanis: “Non è possibile la collaborazione fra un regista e un attore che tratta in modo così arrogante le persone che lavorano con lui, il regista e gli altri attori”» (Paolo Pantaleo). Un antico dissidio si ricompose però nel 2013, quando l’attore decise di celebrare «i suoi 50 anni sul palcoscenico non a Vienna, al Burgtheater del quale è anche uno dei membri onorari, ma al Berliner Ensemble. E questo anche, soprattutto per amicizia nei confronti di Peymann, per quanto i due nei molti anni di collaborazione al Burgtheater si fossero pure molto azzuffati. Quella sera al BE, […] come habitué e berlinesi chiamano il teatro di Bertolt Brecht e di sua moglie Helene Weigel, […] Brandauer si esibiva ne La brocca rotta, […] una delle pièce più amate da Brandauer, perché nei panni del giudice di provincia, trafficone, approfittatore del proprio potere, riesce a tirar fuori tutta la sua vena umoristico-grottesca. […] Brandauer era in splendida forma. Istrionico nell’interpretazione e anche dopo, quando aveva ricevuto gli auguri e il ringraziamento da parte di Peymann per aver scelto il BE per festeggiare il suo anniversario» (Affaticati). Negli ultimi anni, Brandauer sembra aver stretto uno speciale sodalizio con il grande regista tedesco Peter Stein. «È stato Wallenstein nella magnifica messa in scena integrale realizzata da Peter Stein del dramma di Schiller nel 2007. Nel 2008 ha interpretato il giudice Adam nell’affascinante allestimento di Stein de La brocca rotta di Von Kleist, mentre nel 2010 ha recitato nel ruolo del protagonista nella sconvolgente produzione dell’Edipo a Colono di Sofocle diretta a Salisburgo ancora da Stein. E nel 2014 hanno di nuovo lavorato insieme: Klaus Maria Brandauer è Re Lear nella messa in scena del dramma shakespeariano creata da Peter Stein. […] Klaus Maria Brandauer […] muta da anziano sovrano testardo e impetuoso a personaggio saggio e quasi ascetico» (Irina Wolf) • Grande appassionato di musica, alla metà degli anni Ottanta «ha scoperto la vocazione di "voce recitante" […] a Firenze, […] con un concerto che era diretto da Zubin Mehta. Da allora ha ripetuto più volte questa esperienza. […] "Quando Mehta mi propose questa esperienza fui entusiasta dell’idea, anche se all’inizio ero angosciato, nervoso. Ma essere insieme a decine di strumenti che emanano suoni simili a voci di animali fantastici è una cosa incredibilmente affascinante, straordinaria", racconta Brandauer» (Paolo Vagheggi). Uno dei testi operistici cui ha più spesso prestato la propria voce è l’Egmont scritto da Goethe e musicato da Beethoven, incentrato sulla vita dell’eroico condottiero fiammingo. «"In realtà, Egmont non è un eroe: è una persona piena di dubbi, che deve diventare un eroe. E fino all’ultimo non è sicuro, non è certo, non sa se ha scelto la strada giusta", sostiene Brandauer. "Deve decidere se dedicarsi alla causa, alla libertà dei Paesi Bassi, o alla propria felicità, all’amata. È uno dei dubbi che attraversano il personaggio. Non sa qual è il suo destino, non sa se deve guardare alla vita pubblica o al privato"» (Vagheggi). Brandauer stesso, peraltro, ne ha curata una rielaborazione: «Nella versione tradizionale, che si fa quando si presentano in versione da concerto le musiche di scena composte da Beethoven per il dramma di Goethe, in realtà poi la storia non si capisce mai bene. Così ho scelto i testi rifacendomi anche a Schiller e a Grillparzer. Il fatto è che Egmont di Goethe non è mai stato un successo, e molti ci hanno messo mano: così, senza essere troppo scientifici, ho fatto un lavoro complessivo, scrivendo anche qualche raccordo» (Franchi). Molto apprezzata, inoltre, la sua «grande prestazione teatrale come narratore in Leonore, l’unica opera lirica di Beethoven» (Canova). «Del resto, KMB il teatro musicale lo frequenta spesso da regista: “Ho fatto Lohengrin a Colonia, L’opera da tre soldi al Berliner Ensemble, l’Histoire du soldat tante volte”» (Mattioli) • Un figlio, Christian (1963), dalla prima moglie, la regista e sceneggiatrice Karin Müller (1945-1992); un altro figlio, Ferdinand (2014), dalla seconda e attuale consorte, la studiosa di teatro Natalie Krenn • «Fama di attore indocile» (Paolo D’Agostini). «Il brutto carattere dell’attore austriaco è leggendario» (Maria Pia Fusco). «Vanesio, chiacchierone, individualista, egocentrico, dicono. […] Considerato un compagno di lavoro insopportabile, […] Brandauer usa bravura e fascino per imporsi con rabbia, per litigare spesso con i suoi registi» (Aspesi). «Brandauer facile non lo è stato mai. Se la stampa internazionale l’ha sempre voluto dipingere come bello e dannato senza risparmiare aggettivi per descrivere quegli occhi a fessura che bucano il volto (sornioni, perversi, diabolici), i critici di casa, più avvezzi al suo fascino, ma anche alla frequentazione dal vivo, hanno sottolineato il talento dell’attore, ma non hanno taciuto le spigolosità dell’uomo (arrogante, inavvicinabile, difficile, imprevedibile). Brandauer ricambia. (“Se la critica austriaca avesse un qualsiasi peso, da tempo dovrei essere bandito dal palcoscenico”). […] Puntiglioso fino allo sfinimento, le cronache dai set raccontano che è riuscito a litigare con quasi tutti i registi. Oggi ammette che, sì, forse un po’ difficile lo era. Tuttavia continua a essere convinto che “è l’idea giusta a fare la regia di uno spettacolo, e non è detto che sia il regista ad averla”. Sydney Pollack dopo l’avventura africana lo definì “presuntuoso ma dotato di una grande intelligenza”. Con Sven-Eric Bechtolf, regista e suo vicino di casa, ebbe tali e tanti scontri che la prima al Burgtheater di Chi ha paura di Virginia Woolf? andò in scena con un mese di ritardo. Viste però le critiche osannanti, i due fecero pace e continuarono a lavorare insieme» (Affaticati) • «Magnifico attore e dicitore» (Alberto Arbasino). «Una carica istrionica che trasforma anche un’intervista in una recita, e una voce camaleontica da Carmelo Bene in tedesco» (Mattioli). «Un classico mostro sacro europeo da interni, […] che al cinema non sempre trova la misura giusta» (Farassino). «La sua carriera, fatta di momenti di gloria ma anche di molti risultati mediocri, fa pensare a un grandissimo talento sprecato. Di un attore sempre in bilico tra due possibilità. Restare il tesoro vivente delle scene nazionali o dare la scalata all’olimpo hollywoodiano. L’inglese Guardian l’ha definito una volta il più grande attore vivente» (Affaticati) • «I personaggi che ha interpretato sono quasi tutti figure dell’ambiguità. A iniziare da quelli che compongono la trilogia di Szabó. Dall’attore Hendrik Höfgen […] al colonello Redl, un ufficiale dell’impero austroungarico che paga la sua doppiezza di carrierista da una parte e omosessuale dall’altra con il suicidio. Fino a Hanussen, un chiaroveggente austriaco vissuto in Germania, che, secondo alcuni, fu maestro di dizione di Hitler. Fino al chirurgo Zoltan Halmy, che nella Quinta donna (un giallo prodotto per la televisione, diretto da Alberto Negrin e ambientato durante la rivolta ungherese del 1956) si dimostra medico di valore ma uomo privo di qualsiasi coraggio civile. Fino al Nerone del Quo vadis? di Franco Rossi» (Affaticati). «Amo i personaggi complessi, estremi, che per ottenere il potere sono costretti a mentire. Come Höfgen, come Redl, ai quali la libertà di essere se stessi è negata dall’ambizione». «Il mio compito di attore è quello di spezzare schemi, di far nascere dubbi. Perché il Mephisto di Szabó è piaciuto tanto? Perché, anziché realizzare un film dove il Bene e il Male sono inequivocabilmente identificabili, lui ha scelto un’ottica più sfumata, ha messo in evidenza la problematicità del personaggio» • «Mai una reazione scontata, mai la sensazione di essere arrivato, mai una scelta che non sia dettata dall’istinto: per Klaus Maria Brandauer […] recitare è “come fare l’acrobata al circo”. Ogni ruolo è una camminata sul filo, con un traguardo che può essere mille cose diverse: l’intrattenimento puro e semplice, la comunicazione agli altri di “qualcosa di importante”, l’ennesima occasione per dimostrare la “compresenza del bene e del male”. […] Come definirebbe il mestiere d’attore? “Prima di tutto non lo considero una professione, ma qualcosa di strettamente legato alla nostra esistenza. Io ho scelto di viverla dal primo all’ultimo respiro, seguendo sempre la spinta della curiosità, magari sbagliando strada per raggiungere obiettivi sconosciuti, comunque senza mai dare voti e giudicare. E senza dormire: preferisco seguire da sveglio visioni e fantasie”. In base a quale tipo di ragioni sceglie i ruoli? “In realtà a guidarmi è un miscuglio di cose, in cui mi auguro ci siano sempre sia la testa che lo stomaco. Ma c’entrano anche mia madre, mia moglie, mio figlio, gli amici… La giustificazione ideologica, invece, viene sempre dopo”. Le è capitato di rifiutare parti? “Sì, ho rifiutato tantissime cose, perché mi annoiavano, oppure perché non mi facevano pensare a niente. Ho rispetto per chiunque scriva, ma credo che da Amleto a oggi i temi trattati siano sempre gli stessi: la vita, la morte, l’amore. È per questo che è difficile scegliere”. Quanta parte del suo vero carattere è presente nei lavori che fa? “Se fossi uguale ai miei personaggi non sarei attore, ed io lo sono diventato proprio per ‘interpretare’, per intrattenere il pubblico con storie che coinvolgono tutti noi, ma anche per aprire la discussione su certi problemi. Per quanto mi riguarda, ad esempio, in questo mondo mi sento in pericolo: mi spaventano molto di più gli uomini che gli effetti delle catastrofi naturali”. La sua è una carriera molto varia: accanto alle storie d’impegno, ci sono film hollywoodiani come La mia Africa e Mai dire mai, e poi c’è il teatro e la regia. Cosa preferisce? “Quando mi trovo sul palcoscenico di un teatro e il lavoro mi sembra particolarmente difficile, mi capita di pensare che potrei essere su un set, magari in Africa o in Asia… Quando invece sono su un set e devo aspettare ore e ore prima di ripetere per l’ennesima volta la mia battuta di un attimo, penso che potrei essere in un teatro a declamare Shakespeare o Molière… Che dire? Ogni occasione di lavoro dev’essere il modo per comunicare qualcosa d’interessante, ogni occasione può diventare eccezionale”. […] Quando lavora, qual è il suo obiettivo principale? “Farvi credere che quel determinato personaggio sono proprio io. Ma c’è un’altra cosa, più importante: non essere noioso”» (Caprara).