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 2019  giugno 20 Giovedì calendario

Le strisce dell’Adidad non sono un marchio

Le tre strisce parallele di scarpe, tute e cappellini Adidas non sono sufficientemente identificative del marchio e non possono quindi essere registrate. Quanto meno non nell’Ue. Lo ha stabilito il Tribunale dell’Unione europea. Il motivo? Le tre bande costituiscono un «normale segno figurativo» e il logo non ha «acquisito, in tutto il territorio dell’Unione, un carattere distintivo in conseguenza dell’uso che ne è stato fatto» ma solo in cinque stati dell’Unione, il che rende impossibile la registrazione come marchio europeo.
Adidas ha registrato le sue tre bande nella Ue nel 2014 presso l’Ueipo, l’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale. Ma un’azienda concorrente, la belga Shoe Branding Europe, aveva ottenuto nel 2016 la cancellazione di questo marchio dallo stesso organismo. La sentenza del Tribunale conferma tale annullamento. Adidas può ancora appellarsi alla Corte di giustizia dell’Ue per contestare la sentenza.
La si pensi come si vuole, le tre strisce dell’azienda tedesca nata nel 1924 dall’intuizione di Adolf Dassler, figlio di un calzolaio che creò le prime scarpe da calcio col tacchetto nella lavanderia della madre, sono un’icona che ha percorso il secolo scorso, approdando gloriosamente nel terzo millennio. In realtà le strisce, che all’inizio erano due, nacquero da una necessità funzionale: servivano a tenere insieme la scarpa. Divennero tre solo nel dopoguerra quando la società, che originariamente si chiamava Gebrüder Dassler Schuhfabrik (la fabbrica di scarpe dei fratelli Dassler, Adolf e Rudolf) per dissapori tra i due si divise e nacquero due società, la Puma e appunto la Adidas, unione del nome e cognome di Adolf. Il quale, non potendo più usare le due iconiche strisce della gestione precedente, decise che sarebbero diventate tre.
Da lì la fortuna del logo già indossato da Jesse Owens con gran successo (e polemiche) alle Olimpiadi di Berlino ed entrato nella cultura pop, dallo sport alla musica allo streetwear all’arte. Se Bob Marley indossava spesso la tuta a strisce fu la cultura hip hop negli anni ’80 e ’90 a diffondere questa icona europea anche Oltreoceano, grazie a nomi come i rapper Run DMC, per arrivare agli odierni Kanye West e Pharell Williams che con il marchio collaborano disegnando agognate edizioni limitate. Ma ciò non è bastato evidentemente a convincere i giudici europei.
Maggior fortuna è andata invece al Milan: lo stesso Tribunale dell’Unione europea ha infatti respinto l’impugnazione della Marriott Worldwide relativa al marchio AC MILAN registrato nel 2013 dalla società rossonera per farlo valere anche come marchio europeo per una serie di beni e servizi. La Marriott si era opposta nel 2014 facendo valere dei propri marchi anteriori, ma dopo il ricorso respinto dall’Euipo il Tribunale Ue ha escluso che «tra i marchi in conflitto vi sia qualsivoglia rischio di confusione, dal punto di vista visivo, fonetico o concettuale».
Sullo sfondo ci sono vendite miliardarie e l’opportunità di giungere al cuore, alla mente e al portafogli del consumatore. Del resto il nostro è un tempo pieno di loghi, brand e identità aziendali. E non sono certo questi i primi marchi storici a essere messi in discussione. In tribunale sono finiti anche la mela di Apple e il suo fondatore Steve Jobs, il cui nome è stata utilizzato da due imprenditori partenopei per il loro marchio di abbigliamento e hi-tech, con un logo che riporta una «J» che ha una sorta di «morso». Ma il tribunale ha dato il via libera: nessuna possibilità di confusione con l’originale. Quanto a McDonald’s, il colosso americano del fast food ha perso il contenzioso con l’Euipo contro la catena irlandese Supermac’s perdendo l’esclusiva europea del nome della sua polpetta più famosa, il Big Mac.
E prima delle ultime elezioni europee qualcuno ha pensato in Francia di registrare il nome «gilet jaunes» non una ma 25 volte, nelle versioni singolare, minuscolo, maiuscolo, eccetera, pensando di trarne vantaggio elettorale.
Nel caso delle strisce Adidas invece il vantaggio è solo commerciale ma dietro si muovono compagnie globali con il potere di muovere milioni di giovani stregati dal marchio. Chi ha un figlio o una figlia adolescente sa quanto può valere oggi un «brand» ben assestato nell’immaginario come «figo». Sono milioni che si spostano. Sì, anche per una striscia, o anzi tre.