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 2019  giugno 20 Giovedì calendario

«Dire che la Raggi è incapace non è un insulto. Solo un fatto»

«Incapace», l’aggettivo qualificativo da cui Virginia Raggi si sente offesa, non è un insulto. Nel Dizionario Garzanti della lingua italiana, alla voce «incapace» si legge: «Persona che non sa fare qualcosa, che non ha le capacità necessarie per svolgere la propria attività». È una definizione neutra, e non contundente. Il dizionario Tommaseo-Bellini del 1865-1879 distingue: «Vi è l’Incapacità naturale e l’Incapacità meramente civile». Senza offendersi, la sindaca potrebbe far rientrare se stessa nella categoria numero due. Del resto non è stata lei stessa, in una conversazione che doveva restare segreta sul caso Ama ma poi è stata divulgata, a dire: «Ho la città fuori controllo»? E non c’è radiografia più netta e auto-certificata di questa. Da parte di una sindaca che non riesce a cogliere l’emergenza in cui vive Roma e l’urgenza di porre rimedio a una situazione la cui gravità è sotto gli occhi di tutti, anche dei suoi.
Con una battuta, rubata a Ennio Flaiano, si potrebbe dire che è sempre meglio incapaci piuttosto che «buoni a nulla e capaci di tutto». Più seriamente, vanno citate due sentenze della Corte di Cassazione. Secondo le quali – una è dell’11 novembre 2014, l’altra del 5 febbraio 2015 – non è un’offesa dare dell’incapace o dell’incompetente all’amministratore di un condominio (e il Comune è un condominio allargato).
In questo caso, dunque, «incapace» vuol dire non essere in grado di assolvere al compito per cui gli elettori ti hanno dato una preziosa delega: quella per fare il sindaco. Addirittura della Capitale italiana, il che rappresenta un surplus di responsabilità da assumersi in pieno senza divagare o fantasticare. Non è vero per esempio, come dice la sindaca rivolta al Messaggero, che il nostro giornale si sia distinto per un titolo d’attacco «a orologeria» sulla vicenda di Civitavecchia (alcune sue consulenze alla Asl quando faceva la avvocata, procedimento archiviato). Questa testata, come altre, arrivò in seconda battuta riprendendo su quella vicenda l’anticipazione che il 17 giugno 2016 era stata pubblicata dal Fatto Quotidiano, a firma di Marco Lillo. L’«orologeria» e l’accanimento del Messaggero non si capisce dove sarebbero.
Si capisce ancora meno, ma qui rimandiamo al nostro fact-checking a pagina 3, la lista delle realizzazioni per la città che la Raggi illustra nel suo post di ieri su Facebook. Quanto a noi, Il Messaggero, fedele al suo ruolo di difensore civico, ha sempre evidenziato, con più enfasi di altri, le iniziative della giunta, anche quando sono apparse microscopiche e non all’altezza dei problemi.
Ma al netto della permalosità, quel che colpisce dell’intemerata della Raggi è l’incapacità – riecco la parola chiave – di mettersi dalla parte dei cittadini, di empatizzare con i romani che soffrono a causa dei deficit amministrativi del Campidoglio. Evasiva e auto-assolutoria: così appare la sindaca. Incapace di elaborare una consapevolezza personale e politica su quanto è accaduto a Roma negli ultimi tre anni. E per l’ennesima volta, rovescia la piramide civica e stravolge i principi di autorità e di responsabilità: non si propone, a dispetto di quanto richiederebbe il suo ruolo, come la figura istituzionale che protegge Roma e i romani, ma chiede a loro protezione e quella comprensione che nessuno ha più la forza e la voglia di darle. Il Messaggero dal canto suo ha ingaggiato una fiera battaglia, in difesa di Roma, contro l’autonomia voluta dalla Lega. E ci lasciano indifferenti le avvisaglie di campagna elettorale su cui si stanno avventando i partiti.
E comunque, di fronte al Disastro Capitale, risulta straniante e soprattutto ingeneroso con la città il ricorso della Raggi alla teoria del complotto, a quella sindrome cospirazionista («I vecchi salotti impolverati del potere» in cui si ordiscono chissà quali trame) che gli studiosi giustamente definiscono l’ultimo residuo (e l’avvenire) della superstizione. Non è, inoltre, una scivolata vantare il proprio rapporto idilliaco con le periferie, quando invece in quei quartieri la sindaca non viene affatto applaudita e il suo movimento, che vi aveva trionfato, ha perso gran parte dei consensi? E l’atto d’amore non basta. «Roma la difenderò a spada tratta perché la amo» suona come una frase retorica, e non è certo l’ostentazione di un sentimento ciò che rende una sindaca attrezzata alla difesa e al rilancio della sua città. E preferibile allora, a dispetto dei proclami altisonanti, tornare a quella perfetta dicotomia che fornì un grande maestro, George Bernard Show: «Ci sono solo due qualità al mondo: l’efficienza e l’inefficienza. E ci sono solo due categorie di persone: i capaci e gli incapaci». I romani hanno scelto dove collocare la sindaca.