Corriere della Sera, 20 giugno 2019
Il prosciutto di Parma è nei guai. Colpa dei maiali danesi
Cambia il copione ma il risultato, un anno dopo, è lo stesso: il prosciutto di Parma è di nuovo nella bufera. A rovinare il 2018 del re dei salumi è stata l’inchiesta della magistratura sull’utilizzo di maiali fecondati con semi di suini danesi (non ammessi dal regolamento) da parte di alcuni produttori. Indagine chiusa – oltre che con le condanne – con la “smarchiatura” di quasi un milione di cosce, tolte dal mercato perché irregolari. A dodici mesi di distanza l’allarme è di nuovo rosso: quattro ispettori dell’Istituto Parma qualità (Ipq) – l’ente incaricato dei controlli sulla filiera – si sono dimessi «per le difficoltà di gestione e le scelte non condivise» – come recita una circolare interna del 3 giugno – con i soci dell’organizzazione. Tra cui ci sono – in evidente conflitto di interesse – i produttori e i macelli che loro devono supervisionare. L’Ipq è stato “sospeso” senza spiegazioni per tre mesi, è la seconda volta in due anni, dall’ente di vigilanza. La marchiatura delle cosce è congelata da due settimane e negli impianti di stagionatura sulle colline di Langhirano sono parcheggiati in una sorta di limbo 3,5 milioni di pezzi – un terzo della produzione annuale – in attesa di capire se e quando potranno ottenere la corona impressa a fuoco del prosciutto di Parma. «Vanno tolti dal mercato perché fatti con maiali con peso superiore a quello previsto dalle norme del consorzio», dice chiedendo l’anonimato uno degli ispettori dimissionari. «Sono prosciutti regolarissimi, bloccati con una procedura irregolare sostiene Davide Calderone, direttore di Assica, la Confindustria dei salumi che ha presentato ricorso per sbloccarne la marchiatura.La partita – aperta nel 2018 dalle inchieste del sito online “Il fatto alimentare” – è delicatissima. Il prosciutto di Parma ha un giro d’affari di 1,7 miliardi l’anno e dà lavoro diretto a 5 mila persone, 50 mila con l’indotto. E l’uno-due degli ultimi dodici mesi è arrivato in un momento nero per il settore, penalizzato dalle etichette “salutiste” allo studio della Ue e dalla fatwa dell’Oms che ha definito cancerogeni i salumi. «Qualche colpa ce l’abbiamo – ammette con trasparenza Thomas Ronconi, presidente dell’Associazione nazionale allevatori suini e membro senza voto del consorzio di Parma –. Un occhio esperto, per dire, avrebbe dovuto accorgersi prima della presenza di maiali “danesi” in filiera, sono molto più magri dei nostri». Che fare? «Dobbiamo ricominciare a lavorare come si deve e affidare i controlli a un ente terzo». «Quelli attuali sono una grande ipocrisia – confessa uno dei commissari dimissionari –. Quando eravamo al macello i suini inidonei al Dop erano il 20%, appena uscivamo il 4%». Non solo. «L’usura della marchiatura impedisce di verificare la discendenza di metà delle bestie macellate e nessuno verifica il peso, che dovrebbe essere tra i 144 e i 176 kg. Quando siamo riusciti a farlo noi, ci è stato subito chiaro che molte bestie erano più pesanti del consentito. Conviene così a tutti». Lasciarle sul mercato – conclude – «è come dare l’ok alla vendita di Brunello di Montalcino fatto con uva di Lambrusco». Scaricando tutto sul portafoglio del consumatore che paga 25 euro al kg le sue fettine di crudo. «Le cose non stanno così – dice Calderone –. Non vendiamo bestie sovrappeso. Se il carico di un camion è eccessivo, si eliminano dalla lista per il “dop” le bestie più pesanti per rientrare nei limiti. E le regole non prevedono lo stop alla marchiatura ma tre ammonizioni e controlli rafforzati ai macelli prima di interventi drastici». Il consorzio sa però che non può rimanere con le mani in mano e sta correndo ai ripari. Anche perché la crisi delle cosce si sta trasformando in un derby gialloverde con alcuni parlamentari M5s che hanno chiesto spiegazioni al ministro dell’agricoltura (leghista) Gian Marco Centinaio. «La situazione è complessa, ma stiamo affrontando tutte le vicende che ci hanno colpito», dice il direttore Stefano Fanti. Il primo passo – oltre al «rafforzamento dei controlli a monte della filiera» – è affidare la certificazione a un nuovo ente indipendente «per fugare i dubbi sul conflitto di interessi sulla proprietà». Che fine faranno i 3,5 milioni di cosce in attesa di “corona”? «Stiamo verificando, se ci sono irregolarità provvederemo – spiega Fabio Bussacchini, nuovo direttore generale Ipq dopo 15 anni nel Nucleo anti sofisticazione dei Carabinieri – A me non risultano dimissioni e siamo in piena operatività». «Serve un’operazione verità – dice Antonio Gasparelli, segretario provinciale Flai-Cgil di Parma –. La filiera non può permettersi opacità. Il disciplinare del prosciutto di Parma ha 20 anni, serve un po’ di manutenzione». «I nostri organi ci stanno pensando», ammette Fanti. Nel segno, si spera, della trasparenza. Per i poveri suini non cambierebbe nie nte. Per i consumatori, invece, sì.