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 2019  giugno 20 Giovedì calendario

Sciascia, Dalla Chiesa e Bartoli spiegati ai ragazzi

Sciascia di Francesco Merlo
Il romanziere Scrittore siciliano, politico. Scrive “Todo Modo”, muore nel 1989 “S ciascia” è un monosillabo ripetuto due volte, come papà, cacca, mamma, parole naturali e onomatopeiche: «Prendete una parola di una sillaba e fatela durare un quarto d’ora» ha detto Bob Dylan per spiegare se stesso. Ebbene, ogni volta che ho avuto il piacere di spiegare Leonardo Sciascia ai ragazzi, anche stranieri, è da lì che sono partito, dalla scoperta che c’è già tutto nel suono di quella sillaba raddoppiata: nomen omen. Dunque “scia-scia” è il suono della pennaspada del romanziere e della giustizia chirurgica del suo capitano Bellodi, personaggio letterario (1961) non ispirato ma ispiratore di tutti gli eroi civili che l’Italia ha conosciuto (Dalla Chiesa e Falcone per cominciare), così come Renzo è tutti i promessi sposi e Pinocchio è tutti i bambini del mondo. Scriveva Sciascia: «La povera gente di questo paese dice “basta un colpo di penna” come dicesse “un colpo di spada” e crede che un colpo della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare l’ingiustizia e il sopruso».
Dunque: “scia-scia” ed estirpi il sopruso. Ma “scia-scia” è anche il fruscio della Sicilia araba, misteriosa e giocosa: «Il mio è un cognome propriamente arabo, che fino al 1860 sui registri anagrafici veniva scritto Xaxa, e che si leggeva Sciascia». Ed è pure il barocco dei significati sino alla complicità e all’omertà, ma con l’asciuttezza del lessico: «In arabo – dice Michele Amari – vuol dire “velo del capo”. E una volta il console di Libia a Palermo mi ha detto che, per indicare un’amicizia strettissima, nel suo paese si parla di “due teste in una stessa sciascia”». I ragazzi capiscono allora che in quel monosillabo poetico c’è davvero la sostanza dell’Italia com’era e dell’Italia com’è, ma con la possibilità di ascendere e di discendere nella terribile scala antropologica nazionale – uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà – perché la religione della scrittura è godimento narrativo ma anche sofferenza storica, avventure di cornuti e sbirri che sono anime umane ed esseri sociali. Basta un monosillabo ben pronunziato e i ragazzi scoprono di abitare in un’Italia che da Sciascia è stata arredata e che senza Sciascia sarebbe peggiore.
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Carlo Alberto Dalla Chiesa di Attilio Bolzoni
Il generale Prefetto di Palermo per 100 giorni, viene ucciso il 3 settembre 1982 L A sua foto non manca mai. C’è sempre, in ogni piccola o grande caserma della Val d’Aosta o della Sicilia, del Veneto o della Calabria. C’è sempre perché è il carabiniere più amato nella storia dei carabinieri. Ma dalle truppe, non dagli alti comandi.
Generale figlio di generale, piemontese di Saluzzo provincia di Cuneo, nella Resistenza dopo l’armistizio, un’educazione militare che si è fatta sul campo giù a Corleone nell’infuocato dopoguerra, fra le nebbie padane e i covi brigatisti degli anni ‘70, ancora nella dannata Palermo che l’ha inghiottito nelle sue sabbie mobili. Quel giorno, il 3 settembre del 1982, nel carcere dell’Ucciardone i boss hanno festeggiato l’uccisione di Carlo Alberto dalla Chiesa brindando a champagne.
«Ho gli alamari cuciti sulla pelle», diceva di sé con compiacimento anche se per quarant’anni ha attraversato tempeste pure nella sua amatissima Arma. Era un potente che non piaceva ai potenti. Adorato e detestato, invocato e temuto, è stato il generale delle “emergenze” nazionali. Prima il terrorismo e poi la mafia. Era un combattente.
Uno di quegli italiani antichi cresciuti nell’“amor di patria” ma con un’anima straordinariamente moderna che ha disvelato nelle sue evolute tecniche investigative, tradizione e spregiudicatezza operativa che a volte gli hanno attirato disapprovazione e sospetti.
Lo Stato si è affidato a lui per sconfiggere la lotta armata che aveva tenuto in ostaggio il Paese. Lo Stato poi l’ha mandato allo sbaraglio in Sicilia per seppellirlo per sempre.
Cinquantottesimo prefetto di Palermo dall’Unità d’Italia, Carlo Alberto dalla Chiesa in quell’isola è morto solo.
Era arrivato da cento giorni, dopo un altro “cadavere eccellente”.
Gli chiesero i giornalisti: generale, perché hanno ucciso l’onorevole Pio La Torre? Rispose da par suo: «Per tutta una vita».

***Bartali di Maurizio Crosetti
Il ciclista Campione nato a Firenze, tre Giri d’Italia, due Tour de France.
Muore nel 2000 N ell’Italia ferita ma non sconfitta, con le case sbriciolate dalla seconda guerra mondiale e i visi affamati e increduli, Gino e Fausto erano la speranza, la forza ritrovata, il fiore che torna ad aprirsi sull’orlo del precipizio. Due ciclisti, Coppi e Bartali, e un sogno possibile, quello della vita che rinasce.
E se Fausto era il fuoriclasse assoluto, Gino era il suo capitano diventato poi rivale, l’ombra sulla strada, la rabbia che non s’arrende, la pietra grezza. Il granito, se l’altro era il diamante.
E ne aveva salvate di vite, Gino Bartali, anche se per moltissimi anni nessuno l’ha saputo: lui non lo disse mai.
Perché il bene si fa, non si racconta. Non disse, il rude Ginettaccio, che d’accordo con l’arcivescovo e il rabbino di Firenze aveva modificato la sua bicicletta perché nei tubi del telaio si potessero infilare i documenti falsi serviti a centinaia di ebrei per crearsi un’altra identità, e dunque non morire. Il religiosissimo campione fingeva di allenarsi, invece faceva la staffetta partigiana. Bartali è stato una specie di Oskar Schindler, e la sua lista vale più di tutti gli ordini d’arrivo delle corse che lo videro trionfatore, i 3 Giri d’Italia, i 2 Tour de France, uno dei quali nei giorni dell’attentato a Palmiro Togliatti, quando l’impresa sportiva di Bartali non evitò la rivoluzione come a volte si è scritto, ma contribuì a distrarre le masse, trasportando la passione popolare su un diverso terreno, come fa il parafulmine quando si scarica la saetta.
Nel 2013 Bartali fu proclamato Giusto tra le Nazioni, perché infine quella storia bellissima e preziosa venne fuori. Lui, brontolando con la voce arrochita dal fumo, non se ne vantò mai.
Sappiano i ragazzi che la bellezza dello sport è sempre un senso profondo di umanità. Le persone, molto più delle vittorie.