Corriere della Sera, 20 giugno 2019
Gli Alberi di Powers
I lettori che sono arrivati alla fine del mio lungo romanzo sulle profonde connessioni tra gli esseri umani e gli alberi spesso mi domandano, in toni che a volte suonano disperati, se il libro offre qualche speranza. Questi lettori hanno appena letto centinaia di pagine sui destini di nove persone che, ognuna a modo suo, sono diventate fortemente consapevoli della distruzione del mondo degli esseri viventi. I lettori hanno osservato questi personaggi mettere a repentaglio le proprie vite per salvare gli ultimi tratti rimanenti di foresta vergine dell’America del Nord. Molte di queste persone hanno deciso di infrangere la legge e, in preda alla disperazione, diventare violente nel tentativo di rallentare la devastazione di ecosistemi insostituibili che stanno scomparendo definitivamente.
Alla fine del libro, questi personaggi hanno perso la loro guerra combattuta per salvare le foreste e, tutti tranne uno, ne sono usciti completamente distrutti. Dei nove protagonisti principali, tre sono morti, due sono finiti in prigione, altri due si sono dati alla fuga, e uno finisce dritto sull’orlo del suicidio. Persino l’unico di loro che non ha perso la speranza si ritrova al centro dell’estinzione di massa, all’alba di catastrofici cambiamenti del terreno, dell’atmosfera e del tempo, su una Terra degradata e disboscata che è stata trasformata in un vivaio industriale grande quanto il globo per mantenere sette miliardi e mezzo di esseri umani.
Tuttavia, i lettori del romanzo (Il sussurro del mondo) riferiscono spesso di come il libro li lasci con uno strano senso di speranza. Vogliono sapere com’è possibile, data l’orribile devastazione raccontata nel romanzo. Vogliono sapere se hanno dato alla storia la giusta interpretazione. Vogliono sapere se anch’io, il narratore di quel racconto irriducibilmente cupo ma incalzante, sono pieno di speranze. E solitamente la mia prima e brutale reazione è quella di chiedere loro: «Pieno di speranze in che cosa?».
Se il lettore si sta chiedendo se nutro delle speranze nella sopravvivenza della nostra cultura capitalista e individualista, mediata dalla tecnologia e condizionata dai beni economici, dico puntualmente: «Neanche per sogno». Qualsiasi specie che considera il resto del mondo delle creature viventi come niente più che un accumulo di risorse per una cultura della crescita e del dominio illimitati, finirà inevitabilmente per essere scartata dalla Terra come un esperimento fallito.
Se, d’altro canto, il lettore intende chiedere se nutro delle speranze nella permanenza della vita non umana – vale a dire se sono fiducioso nel futuro degli alberi – allora do loro tutte le speranze del mondo.
Gli esseri umani moderni sono al mondo da duecentomila anni, e i prossimi cinquant’anni sembrano piuttosto incerti. Gli alberi, per contro, esistono da un periodo duemila volte più lungo rispetto a quello dell’uomo, e durante quell’arco di tempo di quattro milioni di anni sono sopravvissuti a numerose estinzioni di massa. Sono certo che gli alberi, come soluzione alle sfide della vita in pressoché ogni bioma, sopravvivranno all’estinzione di massa che stiamo infliggendo loro e che continueranno a vivere molto più a lungo di quanto riusciamo a immaginare.
L’arborescenza è un’idea talmente geniale che l’evoluzione è confluita verso di essa almeno sei distinte volte. Gli alberi sono socievoli; comunicano tra di loro tramite segnali chimici sia nell’aria che sottoterra. Si mantengono in vita grazie a sistemi immunitari condivisi e allo scambio di cibo e medicine attraverso connessioni fungine. Sono dotati della capacità di reazione, di memoria e in qualche misura di un comportamento flessibile e persino intelligente. Se la maggior parte della gente non riesce a trovare alcuna consolazione nell’offrire speranze per gli alberi, quel fatto stesso è sintomatico della mancanza di empatia da cui ha origine l’eccezionalismo della specie umana e che in sostanza ci rende incapaci di vivere sulla Terra in qualsiasi modo stabile o durevole.
Se intendiamo rimanere qui molto più a lungo, dobbiamo arrivare a condividere le speranze dei nostri vicini. Dobbiamo imparare a vivere alla velocità degli alberi.
In cosa sperano gli alberi?
Una sola betulla può produrre miliardi di pollini ogni primavera. I semi trasportati da vento sono stati trovati a quasi cinquemila chilometri di distanza dall’albero più vicino che poteva averli generati. Nello stato della California, dove ho abitato mentre scrivevo questo romanzo, ci sono sequoie grandi quanto una casa e alte quanto la lunghezza di un campo da football, alberi che avevano già un migliaio di anni quando gli europei si introdussero in America. Ci sono boschi di pioppi tremuli, di cui ogni esile tronco è connesso sottoterra a un ammasso di radici che si sta spostando sulle montagne per innumerevoli chilometri, avanzando e ritirandosi a seconda dei cambiamenti climatici da molto prima dell’ultima era glaciale.
Ci sono pini dai coni setolosi, deformati e sfoltiti da gelidi venti di montagna, che crescono solamente sei settimane ogni anno, aggrappati a dirupi rocciosi, i loro tronchi perlopiù morti – alberi solitari che muoiono lentamente da un periodo di tempo mille anni più lungo di quanto gli esseri umani hanno impiegato per imparare a scrivere.
Invece no, il classico lettore di romanzi letterari dirà il più delle volte: l a speranza di un albero non mi sarà di alcuna utilità. Noi esseri umani ci attribuiamo una sacralità e un’importanza che neghiamo a tutto il resto della creazione. Raccontaci una storia su di noi, chiedono con insistenza quei lettori. Dicci se otterremo quello che stiamo cercando.
E allora, ecco qui una storia. Diciamo che guarda caso qualcosa manda in frantumi l’antropocentrismo. Diciamo che noi impariamo a vivere qui, che ridiventiamo indigeni su questo pianeta in cui c’è vita. Supponiamo, con le parole di Henry David Thoreau, che ci ricordiamo come respirare l’aria, bere l’acqua, assaggiare i frutti, vivere in ogni stagione che passa, e rassegnarsi all’influenza della Terra.
Non faccio nessuna fatica ad augurarmelo. Perché, il fatto è che o ci trasformeremo nuovamente in quella creatura di un tempo, o saremo condannati all’estinzione. La vera domanda è quanta sofferenza infliggeremo nel frattempo alle creature viventi. Sarà difficile ricordarselo, dopo che ci siamo raccontati per diversi secoli una storia molto più allettante. Dovremo ammettere che c’è una continuità tra noi e le altre creature, da cui dipendiamo totalmente. Invece del mito dell’autonomia e del controllo, abbiamo bisogno di un altro più antico, più vasto, più penetrante e autentico: le storie della metamorfosi ovidiana, degli esseri umani e dei loro vicini che si trasformano l’uno nell’altro.
Se intendiamo rimanere qui molto più a lungo, dobbiamo arrivare a condividere le speranze dei nostri vicini. Dobbiamo imparare a vivere alla velocità degli alberi
Com’è ampiamente noto, Fredric Jameson disse che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Dall’anno scorso, da quando il mio libro è stato pubblicato, si sono estinte più di seimila specie. Persino nel tempo che ho impiegato a dirvi queste poche parole, abbiamo perso tratti di foresta primaria pari all’estensione di diverse centinaia di campi da football, e nessun essere umano ha mai visto la complessità, la varietà e la forza di una foresta vergine che ricresce dopo un disboscamento. Tuttavia, sono pieno di speranza. Persino la Bibbia ebraica, il volume tra quelli fondamentali più incurante delle piante, sa su cosa puntare e capisce il genere di alleanza che dovremo forgiare se abbiamo intenzione di restare qui dove siamo. Ascoltate Giobbe, l’eroe della disperazione, mentre parla con Dio che controlla il suo destino (Giobbe 14: 7-10):
È vero, per l’albero c’è speranza:
se viene tagliato, ancora si rinnova
e i suoi germogli non cessano
di crescere;
se sotto terra invecchia la sua radice
e al suolo muore il suo tronco,
al sentire l’acqua rifiorisce
e mette rami come giovane pianta.
Invece l’uomo, se muore, giace inerte;
quando il mortale spira, dov’è mai?
(traduzione di Licia Vighi)