la Repubblica, 19 giugno 2019
Drammi in famiglia con Gassmann
Tra i cinque importanti lavori che nell’avvio del Napoli Teatro Festival diretto da Ruggero Cappuccio hanno evocato un capolinea della vita, si è distinto Il silenzio grande di Maurizio de Giovanni con messinscena di Alessandro Gassmann, un testo sulle relazioni familiari, sul passare del tempo e su un mistero. «Questa dodicesima regia teatrale s’è attenuta ai miei criteri di sempre», spiega Gassmann. «Leggo il copione, mi concentro, faccio un rewind, e verifico le emozioni, le immagini che ho ricevuto da lettore, da spettatore. Mi interessano i drammi attaccati alla gente, che scuotano le coscienze. Quando sono arrivato all’ultima pagina del lavoro di De Giovanni, mi sono commosso. Il finale m’ha frantumato, spaventato, anche se c’è un filo di speranza». Meglio non svelare il tabù rivelatorio conclusivo di una storia incentrata sul capofamiglia scrittore, la moglie, due figli e la fedele colf, un ritratto in cui si mescolano identità vive e non. «L’ambientazione di questo piccolo classico moderno io l’ho retrodatata al 1969, quando c’era una certa differenza tra intellettuali (che non si mercificavano per tv e cinema) e gente semplice, quando l’informazione non era superficiale, quando sussisteva un’intimità. Ed è importante che l’azione sia concentrata in una stanza piena di libri, con un genitore di nome Primic, assonanza non italiana come quella di mio padre…».
Grazie a un apparato di immagini proiettate su un velatino, manifestazione dei pensieri dei personaggi, gli spettatori si imbatteranno nella fisionomia di Alessandro Gassmann… «Appaio come un attore che fa il testimonial di un prodotto, non quello che avrebbe voluto l’autore. Ho optato per una pubblicità basata sul sorriso, ispirata a quella che a suo tempo fece il jazzista Franco Cerri. Uso volentieri, a teatro, sceneggiature visive. Qui per evocare un partner molto maturo della figlia del romanziere ho ripreso le sagome seminude di quattro miei collaboratori e attori». Ma come suggerisce il titolo, sono le minuzie del non detto, e il mare di un largo silenzio, a dettare il senso. «Sì, un po’ come accadeva nel film I ponti di Madison County dal romanzo di Waller. Anch’io sono cresciuto in una strana famiglia allargata dove non tutto si diceva, e mio padre era timido, e io pure, io che sono semmai un ascoltatore. La risorsa di quest’opera di De Giovanni, fatta di spostamenti e scoperte, è in un as colto attraverso l’uscio. Al di là della dolcezza, tristezza e malinconia della consorte e dei figli, c’è un preciso nesso, che si scoprirà al termine, in quell’intendersi tra il padrone di casa e la domestica rintanata dietro la porta». Gassmann ha aggiunto qualcosa alla drammaturgia. «Solo citazioni, come quella dell’autore spagnolo Enrique Jardiel Poncela. Per il resto, i profili dei cinque sono rispettati: uno scrittore (Massimiliano Gallo) vittima del suo talento, che lo allontana dalla realtà; una moglie (Stefania Rocca) che è il vero motore dei destini della casa; un figlio (Jacopo Sorbini) che subisce il padre ed è il disilluso soccombente; una figlia (Paola Senatore) scaltra, moderna, ma rimasta bambina e bipolare; e la cameriera Bettina (Monica Nappo) che conosce la verità, che è la saggezza popolare con cadenze napoletane».
Viene in mente Piccola città di Thornton Wilder... «Io penso a Fantasmi a Roma di Pietrangeli, film del 1961 cui prese parte anche papà. M’aspetto che Maurizio de Giovanni torni a darci dentro, col teatro, e coi segreti umani della sua città. Collaboreremo ancora». E l’altro teatro di Gassmann? «Oltre a questo lavoro, circolerà anche il mio Fronte del porto. E conto davvero di tornare in scena, a fine 2020, regista e anche attore d’un ripristino de La forza dell’abitudine di Thomas Bernhard. Il teatro rimane al centro della mia attività, soprattutto in momenti difficili e preoccupanti come questo, dove la scena resta una base di libertà, di cui consiglio la frequenza». Da ottobre Il silenzio grande sarà in tournée in Italia.
Su questa linea d’ombra di spettacoli fondati su persone che ci sono e non ci sono, al Napoli Teatro Festival (fino al 14 luglio) si sono annoverati il toccante e ammonitorio Zinc, l’ultimo spettacolo di Nekrosius sulla Nobel Svetlana Aleksievic testimoniante i morti in Afghanistan e a Chernobyl, la rituale ballata della leggenda dei bambini napoletani suicidi che Enzo Moscato ha evocato con maestria in Ronda degli ammoniti, il micidiale delirio necrofilo d’un tossico prostituto con cui Roberto Latini ha fatto alla lettera esplodere In exitu di Giovanni Testori, e il tragico e impressionante mistero del fine vita con Lo psicopompo di De Luca, lavori, questi ultimi due, battezzati alla Primavera dei Teatri di Castrovillari e molto in sintonia col tema dell’ultramondano dell’apertura del Napoli Teatro Festival.