il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2019
Peppe Provenzano: «Il Jobs act va ridiscusso. È l’ora della discontinuità»
Peppe Provenzano, economista, è nato a San Cataldo (Caltanissetta, Sicilia).
“L’abolizione dell’articolo 18 è stato un errore al di là del merito, per la valenza simbolica che ha avuto. Questa è la mia idea, ma serve una discussione ampia che guardi al futuro”. Peppe Provenzano, saldamente a sinistra, è il nuovo responsabile Lavoro del Pd di Zingaretti. E ha le idee molto chiare su dove dovrebbe andare il partito: “Il lavoro è il grande assente dalle politiche del governo. Per noi, è un tema identitario. Il compito storico della sinistra è non rassegnarsi alla fine del lavoro. Questa evoluzione del capitalismo lo distrugge in tutte le sue forme: autonomo, dipendente, cooperativo. Dobbiamo tornare a parlare con gli operai e con chi fa i nuovi lavori e lavoretti: democratizzare l’algoritmo, orientare l’innovazione al miglioramento delle condizioni del lavoro. Farne strumento di emancipazione e uguaglianza sociale”.
Come valuta il reddito di cittadinanza?
È una risposta sbagliata a una domanda giusta, proprio perché confonde il lavoro con una politica del reddito. La priorità è il lavoro che non c’è: serve un grande piano di investimenti pubblici. Stiamo lavorando a un Green New Deal, che dovrebbe portare 50 miliardi di investimenti per la conversione ecologica.
E il taglio delle tasse, bandiera di Salvini?
La flat tax compie la più grave delle ingiustizie e rischia di determinare un taglio dei servizi. Noi proponiamo 15 miliardi di taglio al cuneo fiscale tutto a vantaggio del lavoro.
In Parlamento si discute di salario minimo.
La proposta del Pd è migliore di quella dei 5 Stelle. Confrontiamole. Fissarsi esclusivamente sui 9 euro l’ora rischia di scardinare la contrattazione. Bisogna estendere a tutti il valore legale dei contratti collettivi dei sindacati maggiormente rappresentativi. Contro lo sfruttamento, servono più controlli.
Il Jobs act va mantenuto?
Dovremmo guardare a un codice dei contratti semplificato, che estenda tutele e garanzie al di là delle forme contrattuali, che pure vanno disboscate. Non l’ha fatto neanche il decreto dignità. Vanno rivisti entrambi, guardando al futuro. Serve uno Statuto dei nuovi lavori e dei lavoratori.
Ma un dialogo con i Cinque Stelle è possibile?
Alleandosi con la Lega hanno venduto l’anima: se fosse stato un partito con una parvenza di democrazia, dopo le Europee avrebbe cacciato Di Maio. Altra cosa riguarda gli elettori di sinistra che hanno scelto M5S in passato: possono essere ripresi se si rimette al centro l’agenda sociale.
E dopo le elezioni?
Ci vadano intanto.
Zingaretti è stato poco incisivo sul caso Lotti?
Ha parlato di comportamento politicamente inopportuno e lui si è autosospeso. Si è fatta chiarezza.
Eppure resta uno dei leader della corrente maggioritaria nei gruppi parlamentari.
I gruppi non si cambiano con un congresso.
Il Pd di Zingaretti stenta a trovare un’identità.
Zingaretti è segretario da tre mesi, ci sono state le Europee: ha costruito una lista unitaria, l’embrione dell’alternativa. Bisogna mettere al centro diseguaglianze, lavoro, ambiente.
La strada è quella giusta?
Fino a qui abbiamo messo al centro l’unità, ora serve anche la discontinuità.
Cosa pensa dell’operazione Calenda?
Il tema esiste: presidiare il centro e impedire che l’elettorato sprofondi a destra. Ma non può essere compito del Pd. Il centro si è ridotto, l’elettorato radicalizzato. Dobbiamo tornare alla distinzione tra destra e sinistra. Chi è nato dicendo di non essere né di destra, né di sinistra finisce per portare acqua al mulino della nuova destra. Come il M5S.