Corriere della Sera, 19 giugno 2019
Sulla procedura d’infrazione perdono tutti
Il governo italiano deve abbassare le penne, nel conflitto in corso con l’Europa. Sfidare i 18 Paesi della zona euro senza avere neanche un alleato davvero non conviene. Un’eventuale procedura di infrazione ci farebbe molto male, come del resto ha segnalato con la lucidità di un osservatore esterno lo stesso presidente del Consiglio Conte, invitando il suo governo a fare tutto il necessario per evitarla. Gli ipotetici vantaggi di un taglio fiscale finanziato in deficit sarebbero molto probabilmente inferiori al danno certo di una sanzione di Bruxelles e – quel che è peggio – dei mercati. Certo, l’economia non è una scienza esatta; ma nel dubbio, vi fidereste più di Mario Draghi o di Alberto Bagnai? Preferireste affidare le speranze di ripresa a un’ennesima emissione di debito come i mini-Bot, correttamente definiti ieri da Tria «illegali e pericolosi»? Oppure a un equilibrio di bilancio che consenta a famiglie e imprese italiane di finanziarsi ai tassi non dico tedeschi, ma almeno spagnoli? Dove sia l’interesse nazionale è evidente. Perciò stupisce che dei politici definiti «sovranisti» sottovalutino il rischio di cedere per anni la nostra sovranità alla sorveglianza di Bruxelles, perché questo accadrebbe con la procedura di infrazione.
P erò anche l’Europa deve cercare in tutti i modi e fino all’ultimo di raggiungere un compromesso onorevole con l’Italia, e non ascoltare le sirene di chi punta a una prova di forza per dare il segnale di un nuovo inizio. A Bruxelles e in molte capitali si è tirato un sospiro di sollievo dopo le elezioni di maggio perché i sovranisti non hanno sfondato e resteranno dunque fuori dai giochi. Però è bene non dimenticare che non hanno vinto nemmeno gli «europeisti» che hanno fin qui guidato l’Unione, e tra questi non hanno certo vinto né Merkel né Macron. In tre dei quattro Paesi più grandi è arrivato primo un partito antieuropeo. Non era mai accaduto. Popolari e socialisti sommati non hanno più la maggioranza in Parlamento. Non era mai accaduto. Poiché si è inabissato il populismo «di sinistra» (hanno perso i Cinquestelle in Italia, Podemos in Spagna, Melenchon in Francia, Tsipras in Grecia, Corbyn in Gran Bretagna), l’avversario ha ora il volto più chiaro ma anche più minaccioso di una destra nazionalista, talvolta xenofoba (Salvini, Le Pen, Farage, Kaczynski, Orban).
C’è dunque poco da mostrare i muscoli. Grandi idee per il rilancio del progetto europeo non se ne vedono all’orizzonte, dove invece si staglia con una certa chiarezza una divergenza strategica tra Parigi e Berlino, con l’aggravante che in Germania c’è una leadership sul viale del tramonto, e non si sa ancora che cosa verrà dopo. Il tentativo di ridurre il «deficit democratico» dell’Unione, portando alla guida della Commissione il candidato del partito vincente alle elezioni, è già messo in discussione, ed è probabile che la scelta torni invece nelle mani dei governi.
Insomma, l’indubbio successo di Verdi e Liberali, che hanno rinfrancato le file europeiste, non basta davvero ad autorizzare la speranza di uno scatto di reni, di un’inversione di rotta che rimetta l’Europa in sintonia con gli europei. In queste condizioni, può essere forte la tentazione di dimostrare che si va comunque avanti, che l’Unione è viva e vegeta, punendo un grande Paese europeo guidato dai sovranisti. Ma una rottura con l’Italia rischierebbe in realtà di indebolire ulteriormente l’Europa, e magari di dare una mano ai suoi nemici, tra i quali si è ieri esplicitamente iscritto Donald Trump attaccando il nuovo stimolo alla crescita promesso da Draghi.
Una frattura con Roma dimostrerebbe innanzitutto che il metodo su cui l’Unione si è retta fin qui, e cioè quello della concertazione e del consenso, non funziona più; autorizzando così il sospetto che la sfida sovranista abbia davvero aperto una breccia in direzione del conflitto e della disunione. In secondo luogo, si applicherebbe per la prima volta la procedura per debito eccessivo nei confronti di un Paese che è fuori dai parametri del debito fin dai tempi di Maastricht, ammettendo così una falla nei meccanismi di vigilanza dell’eurozona.
Del nostro debito hanno colpa tutti i governi, compreso questo, che l’hanno lasciato crescere. Ne sono responsabili innanzitutto verso gli italiani, che pagano con gli interessi una sovrattassa sempre più salata, e partono così ogni anno con una mano legata dietro la schiena nella competizione con gli altri Paesi (basti pensare che spendiamo più per il debito che per l’istruzione). Ma invece di ridurlo l’Unione rischierebbe di accrescerlo, se usasse una procedura legale che prevede una multa fino a nove miliardi. Al fine di rafforzare la sua credibilità, l’eurozona esporrebbe all’attacco dei mercati la terza economia del Continente, indebolendo così anche se stessa.
Sembra insomma uno scenario «lose-lose», in cui entrambi i giocatori perdono. Una specie di «comma 22» dell’Europa. Bisogna che tutti, a Roma come a Bruxelles, facciano di tutto per risparmiarlo a noi italiani, incolpevoli spettatori di un braccio di ferro che ci allarma e che – come dimostrano i sondaggi – ci saremmo francamente evitati.