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 2019  giugno 19 Mercoledì calendario

Sul Trattato di Versaille

Triste la fama di Versailles in riferimento al trattato di pace del 1919 firmato a conclusione della Prima guerra mondiale. Triste e probabilmente ingiusta. Eppure… Nel 2015 il ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis definì (in più occasioni) le richieste di Bruxelles – vincolanti a una rigorosa austerità e a pacchetti di dolorose riforme il sostegno europeo a favore di una Grecia fortemente indebitata – «una nuova edizione del trattato della vergogna di Versailles». Proprio così: «Trattato della vergogna!». Gli fece eco (in qualche modo) l’allora ministro francese delle Finanze, Emmanuel Macron, che mise in guardia l‘Unione Europea da «una Versailles della zona euro». Prima ancora, negli anni Novanta, il quotidiano «Le Figaro» aveva denunciato alcuni sgraditi effetti del trattato di Maastricht come frutto di una «Versailles senza guerra». E, qui da noi, Paolo Savona paragonò le conseguenze di Maastricht per l’Italia a quelle che aveva avuto, per la Germania, il trattato di pace alla fine della Prima guerra mondiale. Segni (ma ce ne sarebbero moltissimi altri) che la concatenazione «Versailles-nazismo-Seconda guerra mondiale» è, secondo lo storico Eckart Conze, «solidamente stabilita nella memoria collettiva e nella coscienza politica del mondo». Tutta colpa delle illusioni che accompagnarono il trattato di pace che sancì la conclusione della Grande guerra.
In un libro pubblicato una ventina di anni fa – Il grido dei morti. La Prima guerra mondiale, il più atroce conflitto di ogni tempo (Mondadori) – il saggista britannico Niall Ferguson scrisse che lo scontro in armi tra il 1914 e il 1918 era stato un «errore» e sotto il profilo strategico una «guerra delle illusioni» Le argomentazioni di Ferguson erano tutt’altro che ispirate a un qualche tipo di pacifismo (socialista, cattolico o d’altro genere), dal quale anzi aveva preso esplicitamente le distanze. Proprio Ferguson basò le sue considerazioni esclusivamente ed esplicitamente su categorie come l’interesse nazionale e il vantaggio economico. Risultato? Giunse alla conclusione che, «se la Prima guerra mondiale non fosse mai stata combattuta, la conseguenza peggiore sarebbe stata una specie di “prima guerra fredda”, nella quale le cinque grandi potenze avrebbero continuato a mantenere enormi apparati militari, ma senza recar danno alla loro sostenuta crescita economica». Furono le «illusioni», solo le illusioni che invece trascinarono l’Europa e il mondo intero in un abisso.
È per questo che, ispirandosi a un celebre film di Jean Renoir del 1937, Eckart Conze – lo studioso di cui si è detto poc’anzi – ha scelto il titolo 1919. La grande illusione. Versailles e il nuovo assetto mondiale per un denso e affascinante libro che Rizzoli pubblica nella preziosa traduzione di Alessandro Colagiovanni e Giuliana Scotto. Le illusioni, scrive Conze, sono qualcosa di diverso e di più che sbagli o calcoli errati. Le illusioni sono idee; idee che non si realizzano, ma che possono determinare e determinano le politiche. Le illusioni sono speranze; speranze che vanno in frantumi, ma che posseggono un enorme valore storico. In che senso? Nel senso che sono aspettative che alla fine non si realizzano, ma che hanno un considerevole impatto sulla storia. L’illusione principale era stata l’idea dell’élite tedesca non solo di diventare attraverso la guerra una potenza globale, ma di ottenere il controllo del mondo affrontando in un confronto armato – vincente – la Gran Bretagna. E di trasformare così l’Impero tedesco in una monarchia militare autoritaria.
Che assumano la forma di idee, speranze, aspettative, sostiene Conze, «le illusioni sono sempre orientate verso il domani, alimentate non per ultimo dalla convinzione che l’uomo possa dare loro forma e creare un futuro migliore». Anche nel caso in cui queste speranze e aspettative possano essere considerate un’entità trascurabile, esse sono «una potente forza motrice del comportamento umano e influiscono sulla realtà». Così come – forse ancor più – il successivo disinganno.
L’illusione «più illusione delle altre» fu – secondo Conze – proprio quella che si produsse a Parigi nel 1919 al momento della conferenza di pace. Già la scelta del luogo in cui i ministri tedeschi furono costretti a firmare il trattato con le potenze che avevano vinto la guerra – scrive Conze – aveva un significato preciso: la Galleria degli specchi della reggia di Versailles, proprio il posto in cui quasi mezzo secolo prima era stato proclamato il Secondo Reich. La cerimonia poi «fu una messinscena politica dall’elevato valore simbolico, durante la quale niente fu lasciato al caso. E nulla fu risparmiato agli sconfitti».
Davanti agli occhi di tutto il mondo – l’evento fu ovviamente filmato – la delegazione tedesca venne convocata per ultima e sul loro tragitto i rappresentanti del Paese sconfitto furono costretti a superare un piccolo gruppo di gueules cassées, cioè di reduci francesi sfigurati dalle ferite di guerra. Nelle intenzioni dei vincitori questi militari invalidi erano «vittime di un male in attesa di espiazione», presenti in quel luogo allo scopo di umiliare la Germania. Il presidente del consiglio francese Georges Clemenceau, entrando in sala si rivolse direttamente a quel gruppo di gueules cassées, li salutò e li ringraziò per il loro sacrificio. Poi, sempre con lo sguardo rivolto a loro, pronunciò queste parole: «La nazione francese che oggi sono qui a rappresentare, saluta tutti voi che avete pagato questa vittoria con il vostro stesso sangue… La cerimonia di quest’oggi non è che il primo passo verso un risarcimento, e ce ne saranno molti altri ve lo garantisco».
Pessime premesse per un summit che avrebbe dovuto riportare la pace nel mondo. Quelle «testimonianze viventi degli orrori provocati dalla moderna guerra tecnologica, si trovavano in quel luogo per recare disagio al nemico nell’ora che avrebbe dovuto essere della pacificazione». Lo scopo della loro presenza quel giorno in quel luogo era quello di «rafforzare la sentenza morale» contenuta nel famigerato articolo 231 del trattato, che imputava all’Impero tedesco la responsabilità non solo dell’inizio del conflitto, ma dell’intero ammontare delle vittime. I mutilati, avrebbe scritto il giorno dopo il «Petit Journal», erano ad un tempo «testimoni di guerra, querelanti e giudici» e come tali furono portati su quel «palcoscenico politico». Così, pur incolpevoli, da quel palco provocarono le prime scosse del terremoto che avrebbe travolto l’umanità. Dapprincipio con l’instabilità del primo dopoguerra, successivamente con il secondo conflitto mondiale e infine con sanguinosi scontri armati in corso, ancora oggi, in vaste aree del mondo (prima tra tutte quella mediorientale).
I primi malefici effetti di quella «pace punitiva» si videro in Germania. Come affermò lo storico Karl Dietrich Bracher, «presso il popolo tedesco il trattato di Versailles assunse una duplice valenza: quella di onere schiacciante, nonché quella di forza psicologica e propagandistica». L’instabilità della Repubblica di Weimar e la sua mancata legittimazione da parte dell’intero popolo tedesco, «non furono dovute unicamente al pesante prezzo economico, finanziario e territoriale imposto dagli accordi di Versailles, ma anche, anzi soprattutto, a un deciso e generalizzato rifiuto nei confronti del trattato di pace». Rifiuto «che funse da minimo comun denominatore per la polarizzazione degli orientamenti politici e impedì l’analisi critica di molte responsabilità delle leadership governative e militari nella Prima guerra mondiale».
Oggi, è la conclusione di Conze, il risorgere del nazionalismo, del populismo e dell’autoritarismo in Europa e nel mondo – e cita Putin, Erdogan, Orbán, Kaczynski, Xi Jinping, «ma anche Trump» – fanno tornare alla mente ricordi della crisi europea e mondiale del primo dopoguerra. A quel tempo «una guerra non rielaborata, una pace non voluta e, anche, di conseguenza, una profonda crisi economica misero in discussione la democrazia liberale e in molti Paesi i governi autoritari salirono al potere».
L’idea di un ordine liberale postbellico, in cui vincitori e sconfitti avrebbero dovuto vivere in modo pacifico e libero, rimase un’illusione di breve durata dopo la Prima guerra mondiale. «La storia non si ripete», tiene a ribadire l’autore; «ma i parallelismi ci sono eccome». Ed è davvero «impossibile non vederli». L’ordine stabilito a Versailles, scrive Conze, fu «instabile e di breve durata». Il fatto che tale ordine non avesse «sostenitori determinati (e soprattutto potenti)» contribuì al suo fallimento. Anzi, fu proprio ciò che ne causò il sovvertimento. Tale discorso, prosegue l’autore, vale in maniera particolare per gli Stati Uniti che non si mostrarono disposti a impegnarsi in prima linea per il mantenimento degli impegni assunti da loro stessi. Quando lo fecero – per esempio intervenendo nel corso degli anni Venti sul tema delle riparazioni – si poterono ravvisare le «potenzialità positive del sistema di Versailles».
a tale proposito l’autore cita «la politica d’intesa franco-tedesca dell’epoca di Briand e Stresemann che dopo il disastro del 1923 non sarebbe stata possibile senza la stabilizzazione voluta da Washington». Ma solo pochi anni dopo, «sullo sfondo della crisi economica mondiale, si verificò il ripiegamento degli Stati Uniti su di sé in concomitanza con una forte rinazionalizzazione della politica europea e mondiale». L’assenza degli Stati Uniti dalle scene contribuì anche al carattere «incompiuto» della Società delle Nazioni, che non fu mai all’altezza di fondare e mantenere l’ordine di pace intrinseco nella sua missione. Missione assegnata in modo particolare proprio dagli Stati Uniti nella persona del presidente Woodrow Wilson. La Francia poi era concentrata sul problema di come mettersi al riparo dalla minaccia tedesca, la Gran Bretagna – per parte sua – sul primato del proprio impero.
La Germania fu «accolta» nell’organizzazione di Ginevra soltanto nel 1926, e all’interno della Società delle Nazioni non riuscì ad esercitare nessun ruolo di un qualche peso. Già nel 1930, cioè tre anni prima che Hitler salisse al potere, nella politica tedesca era iniziato un nuovo unilateralismo. Unilateralismo che si accentuò dopo il 1933 e, nel volgere di un breve lasso di tempo, condusse all’uscita del Paese dalla Società delle Nazioni. Si può dire oggi (e qualcuno lo disse già allora) che la Società delle Nazioni andò in frantumi proprio perché non poteva contare sul peso delle grandi potenze quando fu il momento di affrontare l’aggressione e l’espansionismo del Giappone, dell’Italia e della Germania.
Il suo fallimento – giudizio che non comporta l’attribuzione a Versailles della responsabilità per il nazismo o per lo scatenamento della Seconda guerra mondiale – screditò l’ordine impostato nella conferenza di pace, cui di proposito non ci si volle riallacciare nel 1945 (talché la Seconda guerra mondiale terminò senza un trattato di pace). Tuttavia, l’esperienza di Versailles in qualche modo ebbe riflessi anche sulla conclusione della guerra combattuta tra il 1939 e il 1945. Già con l’obiettivo della resa incondizionata, reso pubblico dagli Alleati occidentali nella conferenza di Casablanca (1943), si traevano lezioni dalla fine della guerra 1914-18: si voleva dimostrare inequivocabilmente la sconfitta tedesca mediante una conquista militare di tutta la Germania. A prescindere da ciò, «la struttura di base del sistema internazionale mediante la guerra fredda cambiò da multilateralismo a bipolarismo». Su questo sfondo «Versailles non poteva più essere un punto di riferimento», sicché l’interesse per l’ordine internazionale progettato a Parigi nel 1919 rimase limitato a una «curiosità storica». E ad un’associazione mentale per lo più negativa.