Corriere della Sera, 19 giugno 2019
Biografia di Maurizio Borletti
La questione se imprenditori si nasca o si diventi ha qualche variante quando si racconta Maurizio Borletti, classe 1967. Che sia nato imprenditore, è un’ovvietà, discendendo da una dinastia con un secolo e mezzo di storia, da quando il capostipite, Romualdo Borletti, fondò il Linificio e Canapificio Nazionale, la più grande fabbrica tessile d’Europa e la Fratelli Borletti, una delle prime imprese tecnologiche : orologi, macchine da cucire, sveglie, tachimetri, spolette per bombe, di pari passo con l’industria dell’auto e bellica. Alla seconda e terza generazione si legano i marchi Rinascente, Standa, Mondadori, SNIA, nomi importanti del «miracolo economico».
Che imprenditore Maurizio lo sia diventato lo dice il suo successo: una start up nel design ancora sui banchi della Bocconi, rilancio e sviluppo di grandi marchi – Christofle, Rinascente, Printemps – e ora Grandi Stazioni, la società che gestisce shopping, ristorazione e servizi dei 14 maggiori snodi ferroviari italiani.
Le varianti sono più interessanti per il contesto. Borletti ha fatto fortuna facendo shopping di marchi francesi, in un Paese che ha respinto in passato gente come Agnelli, De Benedetti e Berlusconi e che ha dato filo da torcere a chi vuole metterci il naso (vedi Fincantieri, Luxottica e ora Fca) in nome di un patriottismo economico a senso unico. Inoltre, Borletti ha moltiplicato soldi degli altri, fondi e privati che hanno avuto fiducia nelle sue intuizioni. Come sulle amate montagne di St. Moritz, è capocordata di escursioni verso vette di cui conosce difficoltà e bellezze. Basta fidarsi.
Non le piace la definizione di Re Mida con i soldi degli altri?
«Può essere lusinghiera ma non esatta. In ogni impresa ho messo miei capitali e rischiato in proprio. È vero che gli investimenti di chi ha avuto fiducia sono stati moltiplicati, per tre e per cinque a seconda dei casi».
Mettere in gioco la propria fortuna significa mettersi in gioco personalmente. Lei lo ha fatto molto giovane, da quando perse suo padre. Che cosa sono un’eredità, una dinastia, un nome importante?
«Una cosa è ricevere, un’altra costruire. Si ereditano una cultura imprenditoriale e una responsabilità sociale. Lo dico senza retorica. Un patrimonio di famiglia non deve essere buttato via ma messo a frutto, svolgere un funzione sociale. Mio padre se ne andò all’improvviso, un infarto, dopo un tuffo in mare. A parte il dolore, mi sono trovato senza guida, con un patrimonio finanziario da gestire, anche perché mio padre aveva già venduto l’azienda, poi entrata in orbita Fiat/Magneti Marelli. Era facile perdersi. Per fortuna, trovammo un buon accordo con le mie due sorelle e i tre fratelli e feci la mia strada da solo».
Come nasce l’idea di invadere la Francia?
«Ho ricevuto buoni consigli da uomini che sapevano il fatto loro. I banchieri Enrico Cuccia e Antoine Bernheim e Jean-Louis Dumas, ex proprietario di Hermes mi aiutarono a fare i primi passi. Puntai sulle argenterie Christofle, un marchio prestigioso, ma in crisi profonda. Il rilancio mi avrebbe offerto una grande esperienza nel campo della grande distribuzione di prodotti di lusso e la possibilità di incontrare grandi imprenditori del settore quali Bernard Arnault, Patrizio Bertelli o Leonard Lauder».
All’inizio è stata dura. I sindacati la sequestrarono in ufficio. E poi alzarono le barricate per impedirle la scalata a Printemps. Loro avrebbero preferito che il compratore fosse francese, i grandi magazzini Lafayette.
«E avrebbero sbagliato. Oggi Lafayette chiude negozi, mentre Printemps cresce. L’idea fu di rivoluzionare il concetto di grandi magazzini, quelli per intendersi che vendevano mutande e calze al piano terra, e di farne uno shopping center di marchi di qualità, che attraessero clienti con servizi, arredi e ristorazione raffinata. Resta il fatto che farsi strada in Francia è complicato».
Borletti, cinque figli, Grace, la moglie americana, una bella casa affacciata sul Bois de Boulogne, vive in Francia da quasi vent’anni. Crede di avere capito i francesi?
«Si ritengono cartesiani per formazione culturale, ma sono spesso ideologici. Il patriottismo industriale nell’era della globalizzazione è ideologia. Io mi ritengo un vero cartesiano, senza approccio ideologico. Analizzo la situazione calcolo i fattori di rischio e alla fine il punto di intesa lo trovo».
Quindi il luogo comune della diffidenza reciproca tanto comune non è...
«È diverso l’approccio. Noi italiani siamo più pragmatici, più rapidi nel trovare soluzioni, magari provvisorie e posticce, ma rapide. I francesi fanno sempre sistema, hanno una cultura da ingegneri. Lo si vede nella pubblica amministrazione e spesso anche in politica. Per questo da loro funzionano meglio le grandi imprese e da noi le piccole e medie. Poi abbiamo difficoltà a organizzare la crescita».
Il grande sogno era riprendersi la Rinascente, il distintivo di famiglia, con quel nome inventato da D’Annunzio dopo l’incendio della notte di Natale del 1917 (in realtà il nome fu profetico in quanto dato prima dell’incendio ndr). Ci è riuscito. Perché rivenderla ai thailandesi?
«Non è cinismo ricordarsi che le regole del mercato vanno rispettate. Gli investitori dopo un certo periodo devono uscire dal capitale. Io non avrei potuto andare avanti da solo. Mi è spiaciuto, ma è stata un’esperienza felice, anche perché qui mio padre mi portava da bambino e le commesse mi facevano correre fra i reparti. Ho fatto la stessa cosa con Printemps, che adesso è gestita da un fondo del Qatar. La soddisfazione più grande è di aver preso in mano aziende malate ed averle lasciate sane e in crescita».
E farà lo stesso con Grandi Stazioni?
«Vedremo. Intanto il progetto deve crescere. Siamo già passati da 80 a quasi 500 dipendenti. E il potenziale è enorme. Nelle stazioni transitano 750 milioni di passeggeri all’anno, 150 nella sola Roma Termini, il triplo che a Fiumicino».
Di fatto scommette sui ritardi dei treni...
«Al contrario, si tratta di invogliare il passeggero ad arrivare prima, magari per comperare un regalo o pranzare. E a differenza dei centri commerciali o dei duty free, le stazioni sono in centro e accessibili anche a chi non viaggia. Noi offriamo servizi, ristoranti di qualità, librerie, shopping di alta gamma».
Ci sono angoli di grandi stazioni che sembrano suk insicuri. Come si invogliano i passeggeri? E non la spaventa il rischio terrorismo?
«La natura abbia orrore del vuoto. Se gli spazi diventano vivibili, luoghi di scambio e divertimento, il rischio sicurezza diminuisce. Per questo abbiamo organizzato in stazione sfilate di moda. Il controllo del territorio significa riprendersi la vita, a meno che non si preferiscano gli Stati di polizia, più sicuri, ma al prezzo della libertà, che è il bene più prezioso. Quanto al terrorismo, anche in questo sono cartesiano. Al di là del dolore per le vittime e della ricaduta politica, dal punto di vista statistico è più pericoloso circolare in motorino».
Investire nel sistema delle stazioni significa anche rapportarsi con il mondo politico, le amministrazioni locali e le istituzioni. E su questo punto l’imprenditoria italiana è molto critica. Condivide?
«Purtroppo è un’ovvietà di cui si farebbe a meno. Ci sono due ordini di difficoltà. Quelle strutturali, determinate da pastoie burocratiche e quelle politiche contingenti. L’instabilità, l’altalena dello spread, le tensioni con l’Europa, il clima di sfiducia non fanno bene all’impresa. Non è un’opinione sul governo, ma un dato di fatto. Basta osservare le ricadute della Brexit».
«Borletti punti perfetti», era lo slogan delle famose macchine da cucire. Se la vita fosse una corsa a punti, quanti ne mancano al traguardo?
«Se il traguardo è la serenità della famiglia e degli affetti sono già arrivato. Le sfide imprenditoriali non si conteggiano, si fanno e basta, con il rischio di perderle».
Ma Borletti ama il rischio. Attraversa l’Europa pilotando il suo aereo, scia fuori pista, fa vela d’altura, cose che in apparenza contrastano con l’immagine del borghese colto, amante della musica e della buona tavola, che sfida il dietologo più dei cieli.
«Il mio Pilatus monomotore è uno degli aerei più sicuri del mondo. Sono razionale anche nelle attività private. Amo il rischio calcolato, come nelle imprese. Non esiste imprenditore che non rischi ma quello di successo è capace di valutarli e gestirli, non subirli… possibilmente con un po’ di fortuna. In volo, ad esempio, il rischio è più basso di una tegola in testa».