Corriere della Sera, 19 giugno 2019
Diario di un alpinista che stava per morire
eri, per qualche istante, ho vacillato. Dopo tutto quello che ci era accaduto, dopo la morte dell’amico Imtyaz Ahmmad, ho pensato davvero di mollare per sempre l’alpinismo. Amo questo sport, amo le montagne e amo questa terra meravigliosa che è il Pakistan. Ma in 17 spedizioni che ho guidato, non mi era mai capitato di perdere qualcuno. Stavolta, è successo.
Lunedì abbiamo lasciato Campo 2 intorno alle 4 del mattino. Faceva freddo e le neve era compatta. Eravamo io, Tino, David, Luca, e i tre alpinisti pakistani: Nadema, Imtyaz e sua sorella Sakeela. Finalmente, dopo tante fatiche, stavamo per concludere la nostra avventura e per la prima volta una spedizione avrebbe raggiunto quella vetta inviolata. Mancavano pochi metri alla cresta e io ero davanti e gli altri dietro di me, in fila, legati con le corde. All’improvviso, ho sentito un rumore provenire da sotto i piedi, era come se la montagna avesse cominciato a vibrare. La valanga è venuta giù. Era enorme, un fronte di almeno 300 metri. Frequento l’Hindu Kush da anni e francamente non ho mai assistito a nulla del genere. Era qualcosa di innaturale, forse si sono staccati dei grandi seracchi sotto il manto nevoso. Di certo, tutto s’è trascinato a valle: la neve, il ghiaccio, le rocce. E le persone. Ho cominciato a rotolare giù per il pendio e istintivamente mi sono rannicchiato su me stesso, per proteggermi. Ero convinto che sarei morto. Ho pensato: «Se è così che deve finire, va bene». Quando ho riaperto gli occhi, ero 500 metri più in basso. Alzando la testa, ricordo di aver pensato che quella che avevo di fronte era un’altra montagna: dove prima c’era un pendio, ora c’è una parete verticale.
Ci siamo chiamati e ci siamo ritrovati. Eravamo malconci, contusi. Ma vivi. Tutti, tranne il nostro amico Imtyaz. È stato un momento terribile e la sua perdita fa più male delle fratture. Però in casi come questi non si ha il tempo neppure per il dolore. Serve mantenersi lucidi.
Per fortuna Luca aveva ancora lo zaino con all’interno il telefono satellitare. Abbiamo lanciato l’allarme e poi ci siamo chiesti cosa fare. In realtà, lo sapevamo: dovevamo assolutamente tornare a Campo 2, dove c’erano le tende e le scorte. Trascorrere la notte lì, al gelo, avrebbe ridotto drasticamente le nostre possibilità di sopravvivenza ma Sakeela è stata irremovibile: ha voluto a tutti i costi restare nel ghiacciaio per vegliare il corpo del fratello. Così siamo partiti senza di lei, lasciandole le giacche con cui coprirsi e il poco cibo che avevamo. La discesa è stata dura. Con la caviglia fratturata, ho usato uno degli attrezzi come stampella e l’adrenalina è bastata a tenermi in piedi.
Quando siamo arrivati al Campo 2, io, David e Luca, che avevamo riportato le ferite più serie, abbiamo dormito nella tenda più riparata; Tino e Nadema in quella più esposta. La mattina sono arrivati gli elicotteri e – al villaggio – abbiamo trovato Sakeela: era riuscita a sopravvivere non solo alla valanga ma anche a quella notte da sola nel ghiacciaio. È un mezzo miracolo.
Ora siamo tutti in ospedale a Gilgit e sto pensando al Pakistan, a queste montagne bellissime e alla passione che muove spedizioni come questa. E capisco che non posso rinunciare all’alpinismo, perché non avrebbe senso cancellare una parte di me stesso solo per mettermi al riparo da qualcosa che, in realtà, è imponderabile. Ciò che invece devo fare, è onorare il sacrificio di Imtyaz, il coraggio di sua sorella Sakeela, la bravura dei miei compagni di spedizione, i sorrisi dei soccorritori, il sostegno dei nostri cari... E allora, forse, mettendo tutto questo nello zaino della vita, potrò rimettermi in cammino.