La Stampa, 18 giugno 2019
Neri Marcoré canta De André e Gaber
Dopo Leo Gullotta, Natalino Balasso e Enrico Lo Verso e altri bei nomi che hanno dato lustro alle precedenti edizioni, per quest’anno, il «Festival Nazionale Luigi Pirandello e del Novecento» coinvolge un altro big, Neri Marcorè. L’attore marchigiano arriva a Torino domani, alle 21, nel nuovo spazio all’aperto del cortile San Daniele (Polo del ’900), con un recital tra monologhi e canzoni, dedicato al «secolo breve». Con lui, il musicista Domenico Mariorenzi.
Cos’ha in programma, Neri, per questo appuntamento?
«La rassegna è centrata sui temi che toccherò anche io: il mondo femminile, il 1969, la rivolta politico/sociale e lo sbarco sulla luna. Sicuramente canterò brani di De Andrè e di Gaber. Leggerò anche qualcosa in tema. Dopodiché, spesso succede che io immagini un determinato repertorio e poi, all’ultimo, cambi tutto. Per recital del genere, so che devo farmi guidare dall’istinto dell’ultima ora».
Il festival è intitolato storicamente a Pirandello e, di recente, anche al Novecento. Lei, che è nato negli anni Sessanta, ci ha vissuto per un pezzo nel ‘900. Quanto lo sente diverse da oggi?
«Il più eclatante distinguo che mi viene in mente è il salto dall’analogico al digitale. Specie negli ultimi dieci o quindici anni, si è sempre più “connessi”. Non solo per i social: banalmente, un tempo, ti cercavano al telefono di casa e se non ti trovavano pazienza. Oggi siamo tutti rintracciabili. Una circostanza che facilita la comunicazione? Si e no, perché oggi è tutto più veloce, frenetico, ma anche più superficiale. Come se avessimo un’infarinatura di tutto, ma meno approfondimento. Sono felice di essere stato ragazzo in un’epoca che mi ha fornito gli strumenti per orientarmi anche in questo mondo accelerato. Come la lentezza, che manca ai ragazzi di oggi: loro hanno meno codici critici a disposizione e sono più esposti ai tranelli della modernità».
In senso politico, invece?
«Rispetto al Novecento, c’è quasi un abisso per certi versi. Per dire: la competenza era un valore, anche per un politico. Chi intraprende la professione politica, d’altronde, fa un mestiere e anche molto nobile e non è necessariamente più corrotto di un neofita. Mancata esperienza non significa immacolatezza. E poi, è troppo populistico dire alla gente: “ci penso io!”. Al bene comune e personale dovremmo pensarci tutti. Lasciamo perdere, poi, le fake news su cui si basano molte nostre convinzioni. Tipo la percezione indotta di una criminalità in aumento, specie di matrice straniera: non è vero, è diminuita, ma a qualcuno conviene divulgare notizie false».
Quanto a Pirandello?
«Non l’ho mai frequentato, faccio un teatro di tipo diverso, ma sono assolutamente convinto che la nostra cultura sarebbe monca se non avessimo avuto un drammaturgo così profondo, grande indagatore dell’animo umano».
In programma?
«C’è un film, “Si muore solo da vivi”, che stiamo girando in Emilia, per la regia di Alberto Rizzi, credo uscirà in ottobre. In tv, per ora nulla di interessante. E non parlo solo di fiction: se ci fosse la possibilità di fare un programma interessante, mi piacerebbe molto. Per ora mi occupo delle belle proposte cinematografiche e del teatro. A Torino sarò al Colosseo con il “Tango del calcio”, per la regia di Giorgio Gallione».
Sappiamo che ama Torino, tanto che aveva pensato di trasferirsi qui. Perché?
«Per la facilità con cui ci vivo, per il rispetto che respiro, per l’attenzione nei confronti della cultura. In più, sono pure juventino. Non è un caso che tutte le proposte che mi arrivano da questa zona, io le accetti. A Torino ho vissuto per un bel po’ di tempo di fila quando ho girato la fiction “Questo nostro amore”: stavo in collina, dietro alla Gran Madre. Ma ci sono stato tante volte anche prima e dopo, anche per il Salone del Libro».
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