Corriere della Sera, 18 giugno 2019
Perché la scienza vada avanti bisogna «cercare ogni tanto di lasciare la strada maestra tracciata da altri…». Lo dice Ilaria Capua
«Un’industriosa macchinetta/ che mostra all’occhio maraviglie tante/ ed in virtù degli ottici cristalli/ anche le mosche fa parer cavalli». Voleva spalancare sbalorditi gli occhi di tutti, Carlo Goldoni, dando alle stampe nel 1764, tra i Componimenti diversi, in occasione della vestizione di Contarina Balbi nel Regio Monastero delle Vergini, Il Mondo Novo. La descrizione di uno strumento ottico che a cavallo tra il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo incantava nelle fiere i nostri nonni, mostrando loro cosa c’era in giro per il mondo. Facendoli divertire, facendoli imparare.
Che Ilaria Capua abbia letto o meno quella chicca letteraria non è importante. Certo è che la virologa, diventata famosa anni fa per aver messo a disposizione della comunità scientifica la sequenza genetica del virus dell’influenza aviaria, indicata dalle riviste scientifiche tra gli astri nascenti, eletta deputata con Scelta civica, finita in mezzo a un’inchiesta della magistratura sotto il titolo «Trafficanti di virus», assolta e tornata amareggiata in America per dirigere un centro d’eccellenza alla University of Florida, cerca di battere la stessa strada. Divertire e spiegare, spiegare e divertire.
Così, dopo aver scritto I virus non aspettano (Marsilio) sul suo percorso di «ricercatrice globetrotter», L’abbecedario di Montecitorio (In edibus) sulla esperienza parlamentare e Io, trafficante di virus (Rizzoli) sulle vicissitudini giudiziarie impossibili da chiudere col «lieto fine», la scienziata esce dopodomani, giovedì 20, con un nuovo libro, Salute circolare. Una rivoluzione necessaria (Egea). Cioè? «Le idee che hanno rivoluzionato (ovvero trasformato con un movimento circolare) le nostre conoscenze nel campo della salute» non sono arrivate «dalla disciplina stessa ma da una disciplina accanto o addirittura da tutt’altra parte. In ogni caso rompendo gli schemi pre-esistenti».
Da lì Ilaria Capua, introdotta da una prefazione del filosofo Umberto Curi («Ha scritto un libro che non corrisponde in alcun modo ai protocolli dei lavori scientifici dedicati alla storia della medicina, né si preoccupa minimamente di questa negligenza, offrendoci tuttavia un testo vivo, ricco, attraente, a tratti spumeggiante…»), ha cercato di spiegare come ciò che più conta nelle scoperte importanti sia appunto la capacità di scartare di lato. «Fuori» dal contesto.
«Una piccola percentuale della popolazione non riesce a distinguere il lato destro dal sinistro di se stessi e quindi del mondo circostante», scrive la virologa. «Il processo di lateralizzazione degli individui avviene intorno alla prima elementare e se perdi quella finestra di consapevolezza sei finito: mai e poi mai le parole destra e sinistra avranno un significato per te. Quindi i non lateralizzati non sono capaci di seguire un’indicazione stradale come “vai prima a destra, poi prendi la seconda a sinistra”. Si smarriscono frequentemente, spesso infilano i corridoi dalla parte sbagliata. Allo stesso tempo, però, il non lateralizzato sa che destra e sinistra sono solo in testa: sono una congettura e non una caratteristica intrinseca delle cose, anche se a tutti sembra il contrario».
A farla corta: per fare avanzare le intuizioni, la ricerca, la conoscenza, il vero insegnamento «è cercare ogni tanto di lasciare la strada maestra tracciata da altri…». Come capitò per esempio a un «grande amore» della Capua, il fiammingo Andreas van Wesel (per noi Andrea Vesàlio), il fondatore della moderna anatomia che a 23 anni, nel Cinquecento, parte dalle Fiandre, si laurea all’Università di Padova («culla della rivoluzione scientifica», per lo storico Herbert Butterfield) e viene nominato docente di chirurgia per insegnare l’anatomia. «Cosa che fa a modo suo: per le dimostrazioni si serve di uno scheletro intero e di singole ossa. Ricorre anche a disegni per illustrare la forma dei vasi e dei nervi. I suoi studi meticolosi e attenti lo portano su di un terreno inaspettato: si rende conto che quello che insegna ai suoi allievi, che all’epoca era ancora basato soprattutto sull’opera di Galeno, non corrisponde del tutto a ciò che vede ogni volta che osserva un cadavere». I contemporanei, in buona parte, la prendono malissimo: come osa questo ragazzo mettere in discussione il grande medico greco? Lo stronca su tutti il suo maestro Jacques Dubois, liquidando la sua opera rivoluzionaria De humani corporis fabrica come l’«esempio più pericoloso di ignoranza, ingratitudine, arroganza e empietà».
Profondamente scosso dal rifiuto a priori, Vesalio «lascia la sua cattedra a Padova, brucia tutti i suoi appunti e si trasferisce in Spagna a fare il medico di Carlo V. Continuerà tutta la vita a difendere le sue scoperte dagli attacchi, ma a 28 anni il periodo più fecondo della sua vita è forse irrimediabilmente terminato». Morirà a Zacinto, non ancora cinquantenne. Forse di ritorno da un viaggio in Terrasanta: «Pensa che beffarda la vita, anzi, che beffarda la morte. Il corpo di Vesalio, il corpo che ha disegnato i corpi che han fatto studiare tutti i medici del mondo, non è stato mai trovato».
Ma sono tutte, le storie raccontate da Ilaria Capua, a tenere insieme la scienza, il coraggio, la scommessa sul futuro. Come nel caso di Girolamo Fracastoro, medico, filosofo e astronomo, che «non aveva a disposizione il 99 per cento» delle cose che sappiamo adesso, eppure intuì «il meccanismo dei contagi» e che «le infezioni siano dovute a microrganismi portatori di malattia», tre secoli prima che fosse possibile verificarlo. O ancora nel caso di Antoni van Leeuwenhoek, il commerciante di stoffe olandese che, ispirato dall’«occhialino per vedere le cose minime» di Galileo Galilei, mise a punto nel Seicento microscopi via via più perfezionati per capire meglio la natura dei tessuti che vendeva, finendo per «diventare un ingranditore seriale» curioso «di tutto, tutto quello che gli capitava a tiro: polvere da sparo, spermatozoi, globuli rossi, chicchi di caffè, minerali», fino a quando in una goccia d’acqua di un laghetto finì per «scoprire l’esistenza di piccole creature che chiamò diertgens, “animaletti”».
Il mondo invisibile diventava vivo. E dopo una visita sul campo di tre rappresentanti, perfino la Royal Society superò ogni diffidenza e anzi lo accolse tra i suoi membri. Lui ringraziò per l’onore, ma non si fece mai vedere. Anzi, non rivelò mai i suoi segreti e se li portò nella tomba. «Beh, non si fa», commenta Ilaria Capua. «La conoscenza si costruisce sul lavoro altrui: se tutti si fossero comportati come lui, si sarebbe dovuto ricominciare daccapo ogni volta e staremmo ancora alle pitture rupestri». Ma come nascondere, insieme, una nota di simpatia? In fondo, come si dice a Venezia, «se no i xè mati no li volemo».