Corriere della Sera, 18 giugno 2019
Le storie dei migranti fotografati da Sestini
Di Ansumana, che oggi ha 21 anni, potete cercare il viso fra le centinaia rivolti all’insù su quel barcone sovraccarico di migranti la cui foto è diventata iconica dell’odissea dei migranti nel Mediterraneo e che ha vinto il World Press Photo.
Quando Massimo Sestini la scattò, il 7 giugno 2014, sognava un’immagine che fosse di speranza. La speranza è l’attimo in cui uomini, donne, bambini alzano gli occhi verso l’elicottero apparso come una promessa di soccorso, come la salvezza. Potete cercare il volto di Ansumana, ma non lo troverete, non nel primo scatto, perché lui stava pigiato nella pancia della barca, sentendosi prossimo alla fine: «Ero pelle e ossa, non respiravo. Mi hanno portato su per prendere aria e ho visto l’elicottero. Ero piccolo, non sapevo niente, ho pensato: ci riportano in Libia, è il mio ultimo giorno e io muoio così».
Invece, questa settimana, Ansumana dà l’esame di Maturità all’Istituto Liside di Taranto. Ammesso con 27 crediti.
«Non tanti, ma neanche pochi», dice, considerando che ha imparato l’italiano qui, ha fatto due anni in uno per recuperare il tempo perduto nella fuga dal Gambia e che la mattina va a scuola e il pomeriggio fa il mediatore culturale in una comunità per minori come quella che, all’inizio, ha accolto lui a Terni. È stato il canale National Geographic a ritrovare i migranti di quel barcone, per un documentario, Where are you? Dimmi dove sei, in onda il 20 giugno, alle 20.55. Ansumana, fra i rintracciati, è l’unico rimasto in Italia.
È nato a Serekunda. A 8 anni, quando i suoi divorziano, va a vivere con lo zio, un commerciante che fa politica con l’Udp, inviso al dittatore Yahya Jammeh. Nel 2013, suo zio viene arrestato e poi rilasciato in attesa di processo: «Non aveva fatto niente, gli creavano problemi per motivi politici. Perciò, è scappato all’estero», racconta Ansumana, «pochi mesi dopo, chiama e dice che sarebbero venuti a prendere me, per ritorsione. Mi consiglia di andare in Senegal da mia sorella». Lui va. Due mesi dopo, lo zio richiama, per dire che Senegal e Gambia hanno stretto un patto di estradizione e lui, lì, lui non è più al sicuro. «Gli ho chiesto: dove devo andare? Ha risposto: non lo so».
Inizia una fuga alla cieca. In Mali, a Bomaki, Ansumana si unisce a tre gambiani diretti in Libia. Ricorda: «Nel frattempo, avevo perso il numero di mio zio e finito i soldi». La traversata fra il Burkina Faso, il Niger, il deserto, sono sprazzi nel diario che, oggi, a volte, scrive di notte «perché nove mesi sono lunghi e certe cose le ricordo all’improvviso».
L’ultimo giorno
Ero su quel barcone,
non respiravo
Pensavo: il Mediterraneo adesso ti inghiotte
Questo frammento racconta di quando il furgone si rompe e restano quattro giorni senza cibo e acqua: «Una notte, finalmente, trovammo un pozzo e bevemmo l’acqua senza poterla vedere. E quando si alzò la luce, ci rendemmo conto che era acqua putrida e che per la sete infernale ci era parsa buona».
In Libia, a Tripoli, non trova lavoro: «Ero troppo gracile, zoppicavo per dolori alle ossa da denutrizione, non mi voleva nessuno. Un giorno, arrivano gli Asma Boys, che ti sequestrano, ti picchiano e chiedono il riscatto a casa, io ho detto che non avevo il numero dei miei, ma ogni giorno tornavano e avevo paura». Poi, Ansumana cerca un medico e ne incontra uno che è anche trafficante di persone: «Ha visto che stavo per morire là, si è intenerito e mi ha fatto imbarcare per l’Italia senza pagare».
«Italia», per lui, è poco più che una parola, e in principio era stata una maglia di colore azzurro, perché aveva visto la finale dei Mondiali 2006. A quel punto, nel 2014, in più sa solo che l’Italia è Europa e che tanta gente, per arrivarci, muore. «Ho pensato che a Tripoli in due mesi sarei morto di fame, ma in barca non è che al cento per cento muori». Stipato sul barcone, non ne è più tanto sicuro: «Pensavo: il Mediterraneo t’inghiotte, forse è l’ultimo giorno della mia vita». Alla fine di una traversata di 17 ore e di una fuga di 11 mesi, è in Paese visto solo in tv per una partita di calcio.
A Terni, viene iscritto a una scuola per elettricisti. Ricorda: «Il maestro di italiano mi ha detto: sei appena arrivato e già parli, se vuoi, vai in terza media. Ho detto subito sì, perché, per stare in un Paese, devi saper argomentare con gli altri e interagire con la società». Usa queste precise parole: «argomentare», «interagire». Studia poi al Turistico, ma quando a 18 anni deve lasciare la casa famiglia e viene alloggiato con due maggiorenni, fatica a studiare perché «gli altri ascoltavano musica, facevano tardi».
Grazie a una famiglia che lo prende a benvolere, trova lavoro a Taranto, cambia scuola, recupera un anno. Mattina sui banchi, pomeriggio nella comunità, dove vive e aiuta ragazzi come lui coi documenti, i compiti e traducendo in inglese e mandingo. Il suo permesso di soggiorno per motivi umanitari diventa un permesso per motivi di lavoro.
Ora, ha recuperato i contatti coi familiari. Sogna di raggiungere lo zio in Inghilterra e studiare per diventare procuratore di calcio. Gli chiedi se è felice, risponde di sì. E che è molto fortunato.