Corriere della Sera, 18 giugno 2019
La guerra di potere fra i magistrati
Vacilla il Brasile di Jair Bolsonaro. Un’inchiesta del giornalista americano Glenn Greenwald, pubblicata sul sito investigativo «The Intercept», ha portato alla luce le indebite collusioni tra, Deltan Dallagnol, il capo del pool di Curitiba che indagava sull’ex presidente Lula, e Sergio Moro, il giudice che ha condannato il leader della sinistra brasiliana mettendolo politicamente fuori gioco. Eliminato Lula, Bolsonaro ha vinto le elezioni. E ha compensato Moro nominandolo ministro della Giustizia. Questa la temporanea conclusione di «Lava Jato» («autolavaggio») la «Mani Pulite» brasiliana iniziata nel marzo 2014 con il fine di smascherare i politici corrotti dalla Petrobras, potentissima azienda petrolifera statale. Lula si sarebbe lasciato «tentare» da un (modesto) attico vista mare a San Paolo e, al termine di un’istruttoria contrassegnata – apprendiamo adesso – dai irregolari intrecci tra pubblica accusa e «giudice terzo», è stato condannato. Con la pressoché inevitabile consegna del Paese ad una destra tra le più baldanzose di quelle apparse in tempi recenti sulla scena mondiale. Il giudice Moro, scrivono i giornali locali, non era neppure soddisfatto del posto che ha avuto in dono e ambiva ad incarichi ancora più importanti, ministro del Supremo Tribunale Federale. Probabilmente – dopo le rivelazioni di Greenwald – verrà invece gradualmente emarginato. Ma, quando se ne scriverà la storia, dovremo prendere atto del fatto che il ruolo da lui avuto nella storia del suo Paese è stato determinante.
In Italia l’epoca in cui il magistrato che aveva portato alla sbarra i partiti della Prima Repubblica scontrandosi poi con Silvio Berlusconi, la stagione, dicevamo, in cui quell’uomo in toga «accettò» di diventare Ministro in un governo dei suoi avversari politici, è passata da tempo. Ma, nonostante Antonio Di Pietro dopo varie avventure sia finito ai margini della vita politica, l’Ordine giudiziario di cui un tempo fece parte è divenuto via via più potente. E in grado di condizionare la vita politica del Paese. Talché da noi è divenuta quasi normale la delega ai magistrati del ruolo di oppositori. Cioè di coloro che possono consegnare, direttamente o indirettamente, al patibolo questo o quel ministro, nel caso anche sindaci, presidenti di Regione o leader di governo. Chi entra a Palazzo Chigi può mettere nel conto qualche sorpresina proveniente – per via diretta o indiretta, ripetiamo – dai palazzi di giustizia. Il potere della magistratura è divenuto a tal punto consistente da produrre al proprio interno competizione e conflitti in misura maggiore del passato. Sicché l’informazione è costretta a dar notizia delle lotte nella corporazione giudiziaria dal momento che la conoscenza di esse è ormai indispensabile per comprendere le dinamiche dei poteri. Dei veri poteri.
Un’occasione formidabile per approfondire questa conoscenza l’ha data il ciclone che ha testé travolto il Csm e l’Anm originato – teniamolo a mente – dalla supposta corruzione del pm romano Luca Palamara al quale si imputa di aver ricevuto quarantamila euro per «agevolare» la nomina del collega Giancarlo Longo a Procuratore di Gela (tentativo peraltro non riuscito). Altri duemila euro sarebbero stati donati a Palamara per l’acquisto in una gioielleria di Misterbianco (Catania) di un anello destinato a una sua amica. Per indagare su questi presunti reati, nel telefono portatile di Palamara è stato introdotto un trojan in grado di captare ogni sua conversazione – anche quelle non telefoniche – nel mese di maggio. Dopodiché tali conversazioni, ancorché non concernenti il mistero dell’acquisto di quel prezioso o l’ipotizzata donazione per la promozione di Longo, sono finite a tempo di record sui mezzi di informazione inguaiando chiunque avesse avuto l’avventura di intrattenersi con il sospettato. Fino al punto di costringere alle dimissioni diversi magistrati scoperti a ordire trame assieme a Palamara per mandare questo o quel loro collega a guidare alcune sedi giudiziarie (pratica, immaginiamo, non sperimentata per la prima volta in questa occasione). Le intercettazioni hanno altresì travolto un incauto leader del Pd desideroso di manifestare la propria «influenza», Luca Lotti, ammesso, non si capisce a che titolo, a quei conversari. Al momento la storia finisce qui. Ma possiamo essere sicuri che gli effetti di questo virus spia ci terranno compagnia per tutta l’estate e, come sempre è accaduto, alla fine ci saremo dimenticati della promozione di Longo alla Procura di Gela e dell’anellino di Palamara da cui tutto ha avuto inizio.
Vorremmo però riuscire a tenere a mente che quel monile è stato all’origine di un provvedimento – l’inserimento in un telefonino dell’ormai celebre marchingegno – che nel Paese delle «quattro regioni in mano alla malavita organizzata» sarà stato sì adottato nei confronti di qualche boss ma senza che poi fossimo messi in tempo reale a conoscenza delle parole del malvivente e di chi lo frequentava. È questa la clamorosa novità. Mai è accaduto – a nostra memoria – che qualche equivalente italiano di Pablo Escobar, intercettato in quella maniera, vedesse i suoi segreti immediatamente spiattellati al pubblico. Quel che oggi ci colpisce è che – per una sorta di contrappasso – ad esser travolti da questo evidente abuso siano adesso dei magistrati. Cioè coloro che usualmente si erano mostrati i meno sensibili ai pericoli insiti nell’uso pubblico delle intercettazioni. Nessuno (o quasi) presta attenzione alla circostanza che il trojan di Palamara, in smaccata violazione di un articolo della Costituzione, non fu disattivato al momento in cui stava per intercettare due parlamentari in cui, era evidente, non si sarebbe parlato dell’anello di Misterbianco. Diamo ormai per scontato che decisioni già prese sul futuro di questo o quel magistrato siano rimesse in discussione per il solo fatto che se ne sia parlato una notte in modo improprio. Accettiamo persino – al di là di qualche deplorazione di maniera – che qualche ombra si allunghi sulle anticamere del Quirinale. Restiamo invece come sospesi ad attendere gli ulteriori sviluppi di questa storia e di quelle che verranno da nuovi trojan inseriti in altri telefonini.
Tornando al Brasile, può darsi che adesso Lula ottenga la revisione del processo (lo deciderà il 25 giugno la Seconda sezione della Corte suprema). Ma è assai improbabile che la storia torni indietro e che l’opposizione riesca in tempi brevi a disarcionare Bolsonaro che, è ormai chiaro, ha tratto profitto dalle irregolarità di Dallagnol e Moro. Ma ancor peggio è che, se i brasiliani si applicheranno allo studio del caso italiano, capiranno che il perverso intreccio tra politica e magistratura una volta innestato è capace di riprodursi all’infinito per vie sempre più originali, sorprendenti, imprevedibili. E anche quando —come qui da noi in questa vigilia d’estate 2019 – può apparire che questo mostro sia colpito da una nemesi finale destinata a mettere fuori gioco le parti della magistratura più contaminate dalla politica, si dovrà presto prendere atto che si tratta, appunto, di apparenza. Possiamo sbagliare ma non ci sembra affatto che siamo entrati nella fase conclusiva della storia di questo intreccio. Nodi del genere non si sciolgono mai da soli.