la Repubblica, 18 giugno 2019
Salvini e le manovre trumpiane
«Altro che governo isolato. Nella fragilità dell’Unione europea l’Italia è un punto di riferimento per gli Stati Uniti. Siamo il paese a cui i dirigenti americani si sentono più vicini, siamo l’alternativa allo strapotere franco-tedesco, e io sono venuto a rinsaldare questa vicinanza valoriale». Matteo Salvini è a Washington per una sorta d’incoronazione personale: come l’unico vero trumpiano nel governo italiano, la sponda affidabile di questa Amministrazione Usa. Un tempo si usava dire: l’Amerikano con la cappa. Negli incontri col segretario di Stato Mike Pompeo e col vicepresidente Mike Pence ha preso nettamente le distanze dal presidente del Consiglio Conte e dal M5S su atti qualificanti della politica estera italiana. «È la mia prima volta alla Casa Bianca, sono emozionato, e torno in Italia con una carica fenomenale». Anche se non ha strappato la stretta di mano con Donald Trump, si sente accreditato di un nuovo ruolo: come interlocutore favorito di questa Amministrazione Usa che nei confronti dell’Ue ha una ostilità aperta. Dopo la visita al capo della diplomazia Usa al Dipartimento di Stato, Salvini sceglie Villa Firenze, residenza dell’Ambasciatore d’Italia a Washington, per enumerare puntigliosamente i temi sui quali parlando con i dirigenti Usa ha sconfessato il suo alleato di governo e il premier.
La firma del Memorandum con la Cina sulle Nuove vie della seta? «Condivido le preoccupazioni americane, bisogna controllare le ingerenze di un paese autoritario nelle nostre infrastrutture strategiche». Sul Venezuela? «Fosse per me avremmo riconosciuto Guaidò. Non si può neppure lontanamente sostenere un dittatore criminale come Maduro». Sull’Iran? «La nostra relazione con quel paese è già cambiata. Non possono dire di voler cancellare Israele dalla faccia della terra».
Salvini annuncia una «manovra trumpiana» e usa la riforma fiscale di Trump come una clava contro le regoleeuropee: «Qui hanno ridotto le tasse sulle imprese, come voglio fare io con la flat tax. Risultato: una disoccupazione scesa al 3,6%. Ridurre le tasse è la volontà dei cittadini espressa nel voto. È quello che Bruxelles deve capire». Si allinea su ogni piega della politica trumpiana verso l’Europa: condivide l’appoggio del presidente americano all’ultrà Boris Johnson che vuole un hard Brexit; fa sue le critiche di quest’Amministrazione repubblicana per la «latitanza dell’Europa in Africa». Evoca perfino la possibilità che l’Italia imiti gli Usa nel tagliare contributi alle agenzie Onu «che dovrebbero combattere la fame ma spendono l’80% delle risorse in stipendi». Sull’immigrazione ammira la linea trumpiana che punta a selezionare gli arrivi in base a qualifiche e talenti professionali: «Appena tornato al Viminale voglio lavorarci».
Lo zelo filo-trumpiano lo porta a una forzatura: minimizza la minaccia dei dazi. «L’Italia non è nel mirino, vogliono colpire Germania e Francia». Quando gli viene fatto notare che il Prosecco e altri vini italiani sono nella lista dei dazi incombenti, e che la componentistica per auto made in Italy sarà danneggiata se perde colpi l’export tedesco, se la cava con un «su questo ragioneremo».
L’unico tema rilevante di politica estera su cui Salvini mantiene qualche distanza dagli Stati Uniti, è la sua affinità con Vladimir Putin. Mentre l’America di Trump ha inasprito le sanzioni economiche contro la Russia, lui rimane contrario: «È meglio avvicinare la Russia a noi, che spingerla nelle braccia della Cina».
L’enfasi con cui Salvini vuole accreditarsi come l’uomo di Trump, gli ispira una sorta di «mappa ideale dei sovranisti alleati». Coglie l’occasione di questa tappa a Washington per dire che un prossimo viaggio vorrebbe farlo nel Brasile di Bolsonaro, altro leader nazionalista. A volo d’uccello elenca tutti i paesi che vede nella stessa famiglia sovranista: «Con noi e gli americani e il Brasile forse ci sarà presto l’Argentina; c’è Israele; ci sono la Polonia e l’Ungheria. Non siamo affatto isolati».
Chi si aspetti vantaggi concreti da questa affinità elettiva Italia-Usa, non si faccia illusioni. Salvini sembra aver capito che Trump è imprevedibile, erratico, volubile e inaffidabile perfino con quelli che definisce i suoi amici; inoltre «America First» è uno slogan che non lascia molto spazio per concessioni agli alleati; per di più è ormai iniziata la corsa alla Casa Bianca per il 2020 e questo presidente in cerca di rielezione sarà implacabile nel favorire le sue constituency (dai metalmeccanici di Detroit agli agricoltori dell’Iowa). Perciò Salvini mette le mani avanti: «Non sono venuto a perorare cause particolari, ma a consolidare una comune visione del mondo».