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 2019  giugno 18 Martedì calendario

L’intelligenza artificiale ci renderà immortali (o quasi)



Centoventidue anni e sei mesi. È la durata dell’esistenza di Jeanne Calment, cittadina francese, scomparsa sul finire del secolo scorso, l’essere umano più longevo mai registrato. Quei 122 anni restano delle colonne d’Ercole. Ma oggi, secondo i geroscienziati, sono superabili, come era lo stretto di Gibilterra per i primi navigatori. Solo che, oltre, ci sono terre incognite e oceani misteriosi.
«Si allungano gli anni di vita in buona salute ed è difficile sostenere che un settantenne sia vecchio», provoca Nicola Palmarini, esperto di etica dell’Intelligenza Artificiale e di studi sulla longevità presso il centro di ricerca Ibm di Cambridge, Usa, joint-venture tra la multinazionale dei computer e il Mit. Palmarini è autore di un saggio, pubblicato da Egea, il cui titolo è già una provocazione: «Immortali». Ma le provocazioni e le concessioni narrative, quali la lettera scritta da un ipotetico 2235 in un altrettanto ipotetico New New New England, si mescolano con l’analisi di ricerche in corso, di nuovi brevetti, di miti che sono diventati tecnologia, oltre che di una società che attraversa un mutamento epocale.
Palmarini, lei mette in relazione la rivoluzione nell’IA con il futuro di un’umanità dall’aspettativa di vita ultracentenaria. Qual è il nesso?
«Le ricerche della neonata geroscienza, dallo sviluppo di farmaci alle app, si muovono in direzioni multiple e hanno un alto tasso di fallimento. E lunghe sperimentazioni. Le ultime generazioni di computer, alimentati dal “machine-learning”, fino ai computer quantici, permettono, grazie alla capacità di calcolo, di scommettere sulle innovazioni che hanno più probabilità di riuscita. Di abbattere i tempi. E di fondersi con altri rami di ricerca. Ci sono società come Nuritas che hanno unito IA e genomica per scoprire peptidi bioattivi contro l’invecchiamento. Le reti neurali, intanto, sono in grado di monitorare e confrontare i dati biologici di individui in età avanzata di una comunità, come nel caso del Canadian Longitudinal Study on Aging, diretto da Parminder Raina con base a Hamilton, in Ontario. Non solo: numerose tecnologie biomediche si basano sulla possibilità dell’IA di replicare sensazioni umane, il tatto o la vista. L’IA è un’ alleata delle bio e nano tecnologie».
Sono allo studio anche computer organici, con Rna e Dna al posto del silicio: che ruolo hanno nella guerra all’invecchiamento?
«Parliamo di marker biologici e nanocomputer organici che, inseriti nell’organismo, fanno da sentinella per patologie potenziali. E forniscono cure. La PanTher Therapeutics ha creato un dispositivo che rilascia un farmaco nel pancreas colpito da tumore. Esistono, poi, virus artificiali che attaccano i batteri a cui gli anziani sono più esposti. È l’approccio che combatte la vecchiaia prevenendo e contrastando i pericoli per la salute».
È un approccio che considera la vecchiaia come una malattia: è così che si spera di allungare la vita fino all’immortalità?
«Bisogna calibrare le parole. Considerare la persona anziana come un malato significa isolarlo e mortificarlo. E non si tratta di “politically correct”: l’isolamento, come lo stress, uccide. Meglio considerare la vecchiaia a 360°, come uno stato dell’individuo, con vantaggi e svantaggi, alleviando i secondi. È un approccio medico ed etico. Quanto all’immortalità, è un mito che risale agli albori della cultura. Si continuerà a morire, certo, ma abbiamo la possibilità di spostare i confini della vita naturale. E diventare longevi».
Le tecnologie che cita vanno da quelle in apparenza fantascientifiche, come l’editing genetico, alla medicina rigenerativa, dalle app salvavita all’ibernazione. Da questo brodo biotech uscirà un elisir di lunga vita?
«È presto per dirlo. Una società come Elysium Health ha messo sul mercato la pillola Basis che promette di supportare la salute cellulare, sostenendo i livelli del coenzima Nad+ come integratore invece che come medicina, aggirando così le forche caudine della Food&Drug Administration Usa. Vanta sette Nobel nel “board”, ma il consumatore deve fare un atto di fede. E ancora di più chi decide di ibernarsi con la Alcor. Non c’è garanzia di risveglio. Al contrario è facile congelare cellule giovani per riusarle da anziani. Oggi basta un’app. Di sicuro le società di biotecnologia stanno raccogliendo investimenti. Prevedo che in futuro saranno accorpate in un listino come oggi il Nasdaq per l’hi-tech. Secondo diverse stime, servono cinque trilioni di dollari di investimenti per far decollare il settore a livello globale». 
Lei parla di una democratizzazione genetica con il sequenziamento del Dna accessibile a tutti. Ma non rischiamo un totalitarismo genomico?
«Il rischio esiste. Si tratta di predisporre casseforti di dati inviolabili: saranno gli individui proprietari a decidere quali informazioni rilasciare e condividere. Ma è difficile».
Un’altra relazione che lei ipotizza è quella tra i laboratori della longevità e l’industria 4.0. Può spiegarla?
«Le economie che sono sulla strada dell’automatizzazione spinta sono quelle dove l’età media è in crescita. Gli “anziani” sono consumatori e utenti esperti, dalle auto Tesla ai viaggi spaziali. C’è l’eventualità che la concentrazione di ricchezza porti al monopolio della longevità nelle mani una élite mondiale. Bisogna scommettere sulla condivisione di dati e sulla ricerca pubblica, se si vogliono evitare pericolose fratture sociali».