Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  giugno 17 Lunedì calendario

Nei pronto soccorso senza dottori

Sono quasi dieci anni che si parla di come i nostri ospedali pubblici si stiano svuotando di medici. La stretta sui fondi alla sanità, scelta presa dai governi dopo lo scoppio della crisi del 2008, ci ha già fatto perdere 10 mila camici bianchi. Entro il 2025, in 52 mila andranno in pensione – anche grazie a Quota 100 – mentre mantenendo gli attuali ritmi di reclutamento ne entrerebbero solo 36 mila. Questo porterà l’ammanco a oltre 26 mila, con l’effetto di indebolire ancora il servizio sanitario nazionale e di renderlo sempre meno capace di rispondere alle esigenze di una popolazione che invecchia.
Meno assistenza ai bimbi e per le cure in emergenza
A essere penalizzati saranno soprattutto i pronto soccorso, ma anche pediatria, medicina interna, anestesia, rianimazione e chirurgia. In questi giorni il governo è impegnato nel tentativo di tamponare questa emergenza con una norma contenuta nel decreto Calabria. Il provvedimento, che è all’esame del Senato, prevede un paio di novità importanti. La prima è lo sblocco del turn-over, il quale permetterà di far saltare il tappo che in questi anni ha limitato gli ingressi. La seconda è la possibilità di assumere con contratti a tempo determinato gli specializzandi a partire dal penultimo anno del corso di studi; mettere a lavoro con due anni di anticipo i quasi-specialisti, insomma. Una soluzione che sulla carta avrebbe la capacità di dare una grossa mano, perché permetterebbe 12 mila arruolamenti solo nel corso di quest’anno, ma che è stata molto criticata dalla Conferenza dei rettori universitari italiani (Crui) in quanto ritiene sia incostituzionale. A prescindere da come la si pensi su questo punto, si tratta comunque di una toppa, che tra l’altro potrebbe non essere incisiva in tutti i territori e in tutte le aree. Il motivo è che oggi la carenza di medici non dipende solo dalla quantità di sanitari ammessi alla specialistica, ma anche dalla distribuzione tra le diverse tipologie. Questo è conseguenza delle scelte individuali dei giovani dottori, che come tali sono difficili da controllare o indirizzare. Secondo il sindacato Anaao-Assomed, però, bisognerebbe innanzitutto incentivarli a optare per il servizio sanitario garantendo stipendi in linea con gli altri paesi europei e possibilità di avanzamenti di carriera. E soprattutto retribuendo in modo adeguato il disagio, i turni notturni e le mansioni pericolose. Questo spingerebbe più ragazzi a scegliere settori come la medicina di emergenza e urgenza, che come detto è quello più esposto allo svuotamento.
Il meridione sempre più penalizzato
Nelle stanze dei pronto soccorso, secondo lo studio redatto dall’Anaao, la carenza per le mancate sostituzioni dei pensionati arriverà 4.241 unità nel 2025. In Campania mancheranno ben 800 specialisti di quest’area, nel Lazio 544, in Puglia 498, in Sicilia 356. Insomma, a essere colpito sarebbe soprattutto il Sud, mentre nelle strutture al Nord il gap di personale sarebbe un po’ più contenuto. A salvarsi saranno solo l’Umbria, oltre che le Regioni più piccole, ovvero il Molise e la Valle d’Aosta. Al secondo posto della classifica di chi subirà le maggiori conseguenze è la pediatria, che registrerà tra sei anni un ammanco di 3.394 camici bianchi. In questo caso la distribuzione geografica è più composita, perché la più colpita sarà la Lombardia, con 510 caselle vuote, seguita dalla Sicilia con 471 e dalla Toscana con 329. Il territorio attorno a Milano sarà il più sfortunato anche per la medicina interna, con un buco da 377 specialisti. Se la passeranno male anche l’Emilia Romagna (238) e la Toscana (202).
Tutti questi numeri derivano dalla fotografia scattata prima che arrivasse il decreto Calabria. Quindi saranno mitigati, non si sa ancora in che misura, dall’immissione di specializzandi al penultimo anno. Ma, secondo i sindacati, la strada per risolvere la situazione è ancora lunga. Fino a oggi, ogni Regione aveva un limite di spesa per il personale sanitario, pari a quanto speso nel 2004 meno l’1,4%. Ora invece il parametro che costituirà il limite massimo sarà la cifra investita nel 2018 e aumentata ogni anno di una somma pari al 5% dell’incremento del fondo sanitario regionale. “Questo penalizzerà le regioni che in questi anni sono state sottoposte a piano di rientro – afferma Carlo Palermo, segretario nazionale Anaao Assomed – Molti dei 10 mila medici mancanti sono in Sicilia, Campania, Puglia, Calabria”. In sostanza, si prende come riferimento un livello di spesa al quale si è arrivati dopo anni di tagli. Quindi un punto di partenza che sarà ancora basso soprattutto per chi ha dovuto contenersi per risanare i bilanci. Questi risparmi, secondo una stima della Fp Cgil, hanno portato gli organici del comparto sanità (non solo i medici) a ridursi di 43 mila unità tra il 2007 e il 2017.
L’imbuto dopo l’università. Specializzazione per pochi
Parallelo al problema delle corsie vuote c’è quello del cosiddetto imbuto formativo. Cioè della schiera di laureati in medicina che non sono riusciti a entrare nelle scuole di specializzazione, a causa dei pochi posti disponibili, e sono fermi. Al momento ne abbiamo 8 mila, ma molti si aspettano che superino i 10 mila con il prossimo concorso.
Lo stato Italiano ha speso 150 mila euro per ognuno – a tanto ammonta la spesa pubblica per un laureato – ma ora non dà loro la possibilità di far fruttare le competenze acquisite all’università tenendoli fuori dalle specializzazioni. Ogni anno la facoltà di Medicina sforna quasi 10 mila nuovi dottori. I posti banditi nelle scuole post-laurea fino allo scorso anno erano solo 6.100. A partire dal 2019 il governo li ha aumentati fino ad arrivare ad 8 mila, ai quali si sommano i 2 mila per medicina generale. Questo vuol dire che nei prossimi anni ci sarà equilibrio tra numero di laureati e numero di borse per le specializzazioni.
“Secondo noi andrebbero comunque ancora aumentate – dice Carlo Palermo – per assorbire chi è rimasto fuori per l’imbuto formativo degli scorsi anni”. Tra l’altro, avere 10 mila posti per specializzandi non dà la certezza che tutti loro, una volta terminati gli studi, andranno a lavorare per il servizio pubblico. “Alcuni sceglieranno il privato, altri l’estero. Qui da noi nei primi cinque anni di carriera si prendono 2.300 euro, negli altri Paesi europei si guadagna circa il doppio”.
Inoltre nell’ultima legge di stabilità la Lega ha fatto inserire l’estensione dell’aliquota minima al 15% per le partite iva fino a 65 mila euro di reddito. Quella che impropriamente viene definita “flat tax”, perché permangono gli altri scaglioni, finisce comunque per creare un incentivo alla libera professione, che quindi può indurre i medici a preferire il vantaggio fiscale piuttosto che un percorso da dipendenti del servizio sanitario pubblico nazionale.