il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2019
Tutto quello che c’è da sapere sulla pirateria
Quando Emilio Salgari nel 1898 diede alle stampe il suo Corsaro Nero, le avventure della filibusta avevano un’aura romantica. Oggi la pirateria è un business che gioca sulla miseria di molte nazioni africane, promette un futuro a molti giovani senza speranza ma consente di arricchirsi davvero solo a pochi capi di grandi organizzazioni criminali internazionali.
Lo dimostra la ricerca “Pirateria marittima al largo delle coste dell’Africa: l’impatto sulla Ue e quello globale” pubblicata a marzo da Eric Pichon e Marian Pietsch per l’European Parliamentary Research Service (Eprs), il servizio studi del Parlamento Europeo. L’interesse di Bruxelles è chiaro: nel 2015, il 48% dell’export e il 53% dell’import Ue ha viaggiato via mare. Gli armatori europei controllano il 30% delle navi mercantili mondiali e circa il 35% del tonnellaggio globale, valore che sale al 55% per le navi portacontainer, gestendo il 42% del valore dei traffici marittimi mondiali. Se oltre l’80% del commercio mondiale è via mare, nel caso africano l’import-export viaggia su nave per oltre il 90%.
Secondo l’Ufficio marittimo internazionale dell’Organizzazione mondiale delle Camere di commercio, gli attacchi tentati e quelli realizzati dai pirati fuori dalle 12 miglia marine che segnano il limite delle acque territoriali nell’ultimo decennio sono calati. Rispetto al 2010, lo scorso anno gli assalti si sono dimezzati a 201 ma sono tornati a crescere rispetto al 2017 e si ritiene che molti attacchi andati a segno, specie quelli di minore impatto, non siano denunciati per non far aumentare i costi assicurativi. La mappa del fenomeno è cambiata: nei primi anni Duemila i pirati somali infuriavano nell’Oceano Indiano, oggi i pericoli maggiori sono nelle acque atlantiche del Golfo di Guinea. Resta stabile invece il rischio che pende sulle oltre 120mila navi che ogni anno attraversano gli 800 chilometri dello Stretto di Malacca, tra la Malesia e Sumatra. Secondo il rapporto “L’economia della pirateria nell’Asia sudorientale”, pubblicato da Karsten von Hoesslin per l’organizzazione non governativa Global Initiative against Transnational Organized Crime, tra il 1993 e il 2015 quasi il 60% di tutti gli attacchi mondiali si erano verificati in Asia, due terzi dei quali in Asia sudorientale, con l’Indonesia che da sola “valeva” il 23% della pirateria mondiale. Poi però le marine militari di Malesia, Singapore e Indonesia iniziarono pattugliamenti congiunti e scese in campo anche quella cinese, frenando gli assalti. C’è una stretta correlazione tra l’andamento dei prezzi delle materie prime prodotte ed esportate dagli Stati del sudest asiatico, soprattutto l’olio di palma, e gli attacchi: più alti i prezzi, più lucroso dirottare i mercantili. Intanto il mar dei Caraibi sta diventando una zona calda per gli attacchi agli yacht turistici, con i rischi maggiori sulle coste di Venezuela e Colombia e delle isole di Saint Vincent e Santa Lucia. A scatenare la pirateria è la crisi economica che investe Venezuela, Nicaragua e Haiti.
I danni della pirateria sono difficili da calcolare ma ingentissimi: sono stimati in circa 22 miliardi di euro l’anno a livello globale, tra effetti diretti (pagamenti di riscatti, aumento delle polizze assicurative e operazioni militari) e indiretti (calo della pesca, freno al turismo). Uno studio del 2014 ha ipotizzato che la pirateria somala abbia aumentato i costi di trasporto navale dall’8 al 12% solo per aver costretto le navi a seguire rotte più lunghe per evitare le zone a rischio dell’Oceano Indiano.
Proprio i pirati somali sono stati i primi a sviluppare il loro business da una fase primordiale, con l’impiego di piccole barche con motori fuoribordo dotate di armi automatiche, lanciagranate e razzi (Rpg), a un modello industriale con tecniche sofisticate: dalle mappature radar all’uso delle navi sequestrate come basi flottanti per allargare le incursioni in mare aperto. In questo modo a cavallo del 2010 i somali arrivavano a colpire a oltre 3.100 chilometri dai loro porti nel Corno d’Africa. La strategia dei pirati somali è sempre stata quella di dirottare le navi in acque internazionali, portarle in acque somale e chiedere un riscatto. Le comunità costiere erano le basi di reclutamento, con la manovalanza che in caso di successo guadagnava dai 30 agli 80mila dollari a testa, un vero tesoro per giovani spesso analfabeti e senza altre opportunità. Ma in cima alla scala di comando, a spartirsi la fetta di gran lunga maggiore dei 400 milioni di dollari di riscatti incassati tra il 2005 e il 2012, secondo una stima della Banca Mondiale, c’erano uomini d’affari somali residenti a Londra o negli Emirati Arabi che raccoglievano i finanziamenti dalla criminalità organizzata internazionale, soprattutto russa, e corrompevano il personale delle organizzazioni marittime e delle compagnie di navigazione per conoscere in anticipo identità, rotte e tempistiche delle prede più lucrose. In questo modo tra il 2010 e il 2017 i somali hanno causato danni stimati dall’organizzazione Oceans beyond piracy in 25,9 miliardi di euro. Nel solo 2017 le guardie armate a bordo delle navi sono costate oltre 260 milioni e quasi 180 milioni le attività navali internazionali. Nessuno però potrà mai calcolare quale costo abbia avuto la pirateria per la stessa Somalia, scoraggiando gli investimenti e impedendo qualsiasi forma di sviluppo.
Nel 2011 la pirateria al largo delle coste della Somalia raggiunse il suo picco: furono presi in ostaggio 736 marinai di 32 navi. Tra il 2008 e il 2015 finirono nel mirino anche una quindicina di navi italiane: famoso il tentativo di abbordaggio scattato il 25 aprile 2009 alla nave da crociera Melody della compagnia italiana Msc Crociere, che riuscì a sfuggire mentre si trovava nelle acque a nord delle Seychelles con a bordo 991 passeggeri e 536 membri di equipaggio, e i sequestri subiti dalle navi Malaspina Castle, Buccaneer, Dominia, Savina Caylyn, Alessandra Bottiglieri, Rosalia D’Amato, Anema e Core, Montecristo ed Enrico Ievoli. La risposta internazionale all’escalation portò alla militarizzazione dell’Oceano Indiano occidentale: dal 2008 scattarono i pattugliamenti navali dell’Unione europea (missioni Eu Navfor ed Eucap Nestor, Operazione Atalanta), della Task force congiunta 151 a guida Usa con il supporto di 20 Stati e l’assistenza di Cina, Russia, Corea del Sud, India e Giappone, delle operazioni Ocean Shield e quella della Nato. La pirateria somala fu frenata, facendone calare il numero degli attacchi e le capacità operative, come ricordato anche nel film Captain Phillips – Attacco in mare aperto basato su un vero sequestro ai danni di una nave mercantile Usa nell’aprile 2009. Ma le marine militari occidentali non si occuparono mai di reprimere la pesca illegale gestita da flotte di pescherecci di compagnie asiatiche e occidentali che ogni anno rubano prodotti ittici per 300 milioni di dollari lungo i 3.300 chilometri di coste della Somalia.
Le scorrerie somale però non sono mai davvero finite: nel Golfo di Aden nel 2017 in un solo mese ci furono cinque attacchi. Se nel 2011 a soffrire l’impatto delle scorrerie somale erano le attività turistiche e di pesca del Kenya e delle Seychelles, oggi che l’area d’azione dei pirati somali si è spostata a sud lungo i 2.460 chilometri delle coste africane del Canale del Mozambico, pattugliate dalle marine sudafricana e mozambicana, è il Madagascar che ne viene maggiormente danneggiato. A preoccupare è però soprattutto la recrudescenza della pirateria nelle acque atlantiche del Golfo di Guinea, un’area strategica per l’Europa in cerca di alternative alla dipendenza dagli idrocarburi russi: da qui arriva il 10% del petrolio e il 4% del gas naturale consumato nel Vecchio Continente, con forti investimenti per aumentare l’estrazione. La Nigeria perde 5,4 miliardi di euro l’anno per l’aumento dei costi di trasporto dovuti alla pirateria nelle sue acque. Ma la povertà, il sottosviluppo e la corruzione legata al petrolio in Nigeria rendono attraente la pirateria: nello Stato nigeriano del delta, su circa 5 milioni di abitanti la disoccupazione è il 40%, i poveri sono l’80% e i poverissimi il 56% delle famiglie. I pirati dirottano le petroliere nelle raffinerie illegali, nascoste nell’estuario del Niger, anche grazie all’assenza di controllo del territorio. C’è poi anche un fattore politico: nel Golfo di Guinea il Movimento separatista per l’emancipazione del delta del Niger (Mend) cerca di finanziarsi anche con le scorrerie e si avvantaggia delle dispute di confine tra Camerun e Nigeria sulla penisola di Bakassi.
Perché le vere cause della pirateria africana si trovano sulla terraferma, non in mare: è un business per le comunità costiere emarginate che non hanno altre forme di sostentamento. A testimoniarlo sono gli stessi pirati somali. Per uno studio condotto da M&C Saatchi World Services e dall’Università delle Seychelles, la giornalista Zamzam Tatu, a marzo 2017 ne, ha intervistati 15, tra i 17 e i 40 anni, incarcerati alle Seychelles con condanne dai 12 a 24 anni. “In vita nostra non abbiamo mai visto ordine o pace: è la povertà che ci spinge alla pirateria”, le ha detto uno. “Due dei miei zii sono stati uccisi mentre pescavano nel 2003 da un peschereccio a strascico di uno Stato Ue, altri miei cugini sono dispersi. I pescherecci illegali e le navi che scaricano scorie tossiche non sono anche quelli una forma di pirateria? Però la missione Navfor li protegge. Sto solo cercando di mantenere me e la mia famiglia”, le ha risposto un altro. Decine di migliaia di dollari di bottino, in assenza di alternative, sono un richiamo irresistibile: perché se il corsaro è nero, il negriero resta comunque bianco.