Libero, 17 giugno 2019
La storia di Giuseppe Costanza, il sopravvissuto (dimenticato) della strage di Capaci
Giuseppe Costanza.
Quel giorno, il 23 maggio 1992, è un giorno che ha cambiato per sempre la vita di Giuseppe Costanza, nato il 18 novembre del 1947 e dal 1984 impegnato nel servizio di scorta del giudice Giovanni Falcone. Costanza è sopravvissuto a quell’attentato e non dimentica i pochi attimi antecedenti la tragedia. Ricorda perfettamente l’ultimo dialogo con il giudice così lo racconta: «L’ultima cosa che ricordo del dottor Falcone è che gli chiesi quando dovevo andare a riprenderlo. Mi rispose lunedì mattina». Signor Costanza, mi racconta quegli ultimi istanti del dottor Falcone e della moglie Francesca Morvillo? «Mi ricordo gli occhi del giudice e della moglie che mi guardavano, quell’ultimo sguardo è impresso nella mia memoria in modo indelebile. Ricordo l’ultimo dialogo che riguardava le chiavi della macchina e il gesto imprudente di Falcone, quando tolse le chiavi dal cruscotto con l’auto in corsa, che in realtà mi salvò la vita». In che senso? «Perché quegli attimi perduti in cui la nostra macchina rallentò, fecero sì che noi ci andassimo a schiantare contro i detriti e non saltammo in aria. Pochi istanti e sarei morto anch’io. Sarebbe stato meglio, mi creda. Dopo quel giorno, infatti, la mia vita è cambiata, e anche quella dei miei figli. Dovevo essere io a morire, non Falcone e la moglie!». Dopo quello sguardo del giudice si ricorda qualcosa dei soccorsi? «No, ho un buco nero lungo. Entrai in coma e mi risvegliai in ospedale. Mi ricordo la visita del capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro e quel dolore profondo che da quel momento ho dentro di me. Un dolore che mi porterò fino alla fine della mia vita». Com’era il giudice Falcone con lei? «Come magistrato era inavvicinabile; come uomo aveva bisogno di umanità e si relazionava con me in modo sempre molto cortese e gentile. Fu lui nel 1984 a scegliermi e a chiedermi se avevo voglia di diventare il suo autista. Sapeva che quella scelta avrebbe condizionato completamente la mia vita, sia perché dovevo essere in servizio e pronto ventiquattr’ore su ventiquattro, sia per il rischio altissimo per la mia vita. Io accettai quella proposta, e da quel giorno fino a quel maledetto 23 maggio del 1992 non lo abbandonai mai». È forte il ricordo di quegli anni accanto al giudice, signor Costanza ? «È la mia vita. Il dottor Falcone si fidava di me e mi chiamava all’ultimo momento per decidere qualsiasi tipo di trasferimento. Non mi do pace per essere sopravvissuto, perché sono convinto che con il dottore all’antimafia le cose sarebbero cambiate». Che cosa intende dire? «Il giudice Falcone aveva capito chi era la mafia vera, quella dei colletti bianchi e non quella della manovalanza come Totò Riina. Sia il dottor Falcone che Borsellino sapevano che esisteva un livello superiore, i mandanti dei fatti di mafia. Uccidere loro ha significato dare un colpo definitivo alla ricerca della verità». Sta dicendo cose importanti e gravi: ne è certo? «Falcone a Roma andava in giro senza scorta e in modo libero. Se avessero voluto ammazzarlo, potevano farlo abbastanza tranquillamente lì. E invece...». Cosa? «Hanno deciso di fare il gesto plateale a Palermo, costruendo un attentato e una strage che rimanesse nella storia e fosse riconducibile alla mafia siciliana». La voce di Giuseppe Costanza è decisa, severa e mai rotta dall’emozione, come se questo racconto venisse fatto in modo continuativo ma senza ottenere alcun risultato. Costanza era impegnato non solo fisicamente, come autista del giudice, ma anche moralmente, e la cosa che più lo addolora è il silenzio dello Stato e della famiglia di Falcone nei suoi confronti. Signor Costanza, come ha passato quest’ultimo 23 maggio di commemorazione della strage di Capaci? «Anche quest’anno sono andato sia pur non invitato. Mi sono seduto tra il pubblico e poi sono salito sul palco e ho raccontato la mia verità su Capaci e su ciò che è accaduto. Nessuno ha osato fermarmi. Sono deluso dal comportamento delle istituzioni, per non parlare di quello della signora Anna Falcone, sorella del giudice». Perché dice questo? «Lo Stato mi ha dimenticato dopo che l’ho servito per più di trentotto anni. Dopo l’attentato venni spostato in un angolo remoto del ministero degli Interni fino al 2002, anno del mio pensionamento». Secondo lei perché è accaduto questo? «Perché in questo Paese per essere ricordati bisogna essere o morti oppure parenti delle vittime». Mi sembra normale che si celebrino le vittime della mafia, no? «Certo, chi discute questo. Io sono arrabbiato perché sia lo Stato che la signora Anna Falcone mai hanno ricordato chi è sopravvissuto e ha condiviso con il giudice Falcone otto anni della propria vita». Che rapporto aveva il giudice Falcone con la sorella Anna? «Io in otto anni non l’ho mai vista, e stavo quasi tutta la giornata con lui, né l’ho mai sentita. Dopo la strage di Capaci pare esista solo lei a rappresentare la tragedia. In realtà ci sono anche io, ultimo testimone in macchina con il giudice, e gli agenti dell’auto che seguiva la nostra, anche loro completamente dimenticati da tutti». E lei come cerca di combattere questo silenzio? «Giro l’Italia, vado nelle scuole a raccontare ciò che ho visto e che appartiene alla verità. La mafia è chi ordina, non chi spara. Si è fatto per tanto tempo un’ antimafia di facciata colpendo la manovalanza e non chi ordinava le esecuzioni. Poi, qualche anno fa, ho fatto istanza al Miur per avere a Palermo l’auto su cui viaggiava il giudice Falcone». Ora dov’è la macchina? «Alla scuola di polizia penitenziaria a Roma. Erano già stati stanziati i soldi per il trasferimento a Palermo, la sede naturale dove tenere la Croma del giudice, e tutto fu fermato». Come mai? «Perché c’ero di mezzo io, quindi non andava bene».