Libero, 17 giugno 2019
L’empatia, ovvero la fatica di mettersi nei panni degli altri
L’amico appena piantato dalla fidanzata storica e ha bisogno di sfogarsi, ma viene liquidato con uno «stai tranquillo, si sistema tutto». Il collega che ci sta sulle palle, quello burbero e altezzoso che salutiamo a stento anche quando è lui a fare un passo avanti. La ragazzina che torna a casa con un sorriso grande così perché ha preso nove nella versione di greco e riceve in cambio dai genitori solo un «brava» rapido e sbrigativo. Il marito che comunica trionfante alla moglie l’ennesimo scatto di carriera e lei che lo accarezza appena sulla spalla. Storie di ordinaria mancata empatia che attecchiscono ovunque, sia che in gioco ci siano emozioni negative o positive. Sintonizzarsi sulle frequenze sentimentali degli altri è un esercizio molto più difficile di quanto non sembri. A dirlo è la scienza. Stando a quanto emerso da undici esperimenti condotti su circa 1.200 persone e pubblicati sulla rivista scientifica Journal of Experimental Psychology: General, fatichiamo a metterci nei panni degli altri perché lo sforzo cognitivo richiesto è troppo alto. È proprio una questione di testa che ci fa sprofondare nell’indifferenza. Sei studiosi della Penn State University americana e dell’Università di Toronto hanno messo a punto un test psicologico proprio per capire se la fatica mentale potesse rappresentare un freno all’empatia. Hanno buttato sul tavolo due mazzi di carte che ritraevano i volti di profughi bambini: chi sceglieva il primo doveva semplicemente descrivere ciò che vedeva, mentre chi sceglieva il secondo doveva entrare in relazione con la figura disegnata. Ebbene, solo un terzo dei volontari che hanno preso parte all’esperimento si è buttato sul “mazzo empatia”, tutti gli altri hanno preferito la descrizione asettica all’emozione personale. «Siamo meno preparati», empatizzare è un compito impegnativo, mica roba da poco. «Chi ha problemi nel relazionarsi non per forza soffre di disturbi psicopatologici o è autistico. Queste persone sono più in difficoltà, ma in generale l’empatia richiede fatica da sempre. Non si tratta solo di mettersi nei panni degli altri, ma anche di capire cosa provano e rispondere di conseguenza», spiega Emanuela Confalonieri, professoressa di psicologia dello sviluppo e dell’educazione alla Cattolica di Milano. Ma qual è l’ostacolo principale? «Se siamo di fronte a qualcosa di negativo spesso siamo evitanti perché consapevoli di non saper gestire la sofferenza che ci viene raccontata. Il pensiero che viene fatto è: se non sono in grado io, come potrei essere d’aiuto per qualcun altro? Se invece parliamo di emozioni positive, la fatica a empatizzare è data dalla tendenza ad auto-centrarsi e auto-riferirsi». Ma a tutto sembra esserci un rimedio. Nel senso che l’empatia può essere “allenata”. «A partire dall’età pre-adolescenziale, esistono diverse modalità di intervento anche nelle scuole come il role taking, la capacità di immedesimarsi negli altri assumendone anche il ruolo», sottolinea la Confalonieri. A incidere sui livelli empatici ci sono pure i geni. Della serie: empatici si può anche nascere. Secondo uno studio pubblicato sulla Translational Psychiatry dai ricercatori dell’Università di Cambridge, dell’Institut Pasteur, della Paris Diderot University e della compagnia 23andMe, il 10% delle variazioni delle capacità empatiche nella popolazione è riconducibile ai geni. La ricerca ha sottoposto un campione di 46.800 persone a questionari specifici per testare sia l’empatia cognitiva sia quella affettiva. Ovvero, la capacità di calarsi nei panni degli altri e la capacità di capire cosa gli altri provano e di rispondere con una reazione emotiva adeguata. Al 10% i ricercatori sono arrivati tramite un’indagine statistica su oltre dieci milioni di varianti genetiche. Ovviamente a fare la sua parte è anche il genere. «Non esiste alcun dato scientifico, ma è un’impressione evidente che le donne siano più empatiche degli uomini. Dipende soprattutto da una».