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 2019  giugno 17 Lunedì calendario

Condannate all’ingrasso per trovare marito. Il film di Michela Occhipinti

Il film premiato in questa edizione con il riconoscimento CheBanca!Fuoricinema arriva all’amore partendo da un atto di disamore. Il corpo della sposa, di Michela Occhipinti, è prima di tutto un racconto di odio nei confronti delle donne e del loro corpo, una forma di tortura perfettamente legale che sopravvive in alcuni villaggi della Mauritania: il «gavage».
Nella convinzione che una moglie debba essere grassa per fugare ogni sospetto di miseria dalla famiglia dello sposo, a pochi mesi dal matrimonio (combinato dai genitori) le ragazze vengono obbligate a ingrassare e dunque nutrite con dieci pasti al giorno fino a che non raggiungono la forma di sovrappeso ritenuta accettabile dai familiari del futuro marito. Però nel film di Occhipinti non si smette mai di seguire un filo sottile, quello dell’amore.
«L’amore per il proprio corpo che, poco alla volta, si fa strada in Verida, condannata all’ingrasso – racconta la regista, 51 anni, nata a Roma – e l’amore che lei riesce finalmente a scorgere negli occhi di un ragazzo che le fa il regalo più grande: la guarda».
Già, lo sguardo. È questa la chiave per leggere il film: le donne sono costantemente osservate, scrutate, pesate con gli occhi. Non solo con la bilancia, compito che spetta a giovani di bassa estrazione sociale: periodicamente, incaricati dalla famiglia dello sposo, vanno a pesare le donne in regime di gavage, forma estrema di un’umiliazione perpetrata con l’avallo di madri ansiose e nonne abituate agli occhi critici maschili.
Ma Sidi, il ragazzo pagato per controllare l’ingrasso di Verida, la guarda. La guarda senza pesarla: quello che tutti noi chiediamo all’amore, a costo di aspettarlo per una vita.
«In realtà questo film ragiona per antitesi – continua Occhipinti —: partendo da una realtà difficile come la città di Nouakchott, volevo dimostrare come questo disamore nei confronti del nostro corpo appartenga a tutte noi, italiane comprese. Siamo davvero sicure che ogni volta che andiamo a farci gonfiare il seno o togliere il grasso dalla pancia stiamo davvero obbedendo a un desiderio che ci rispecchia? O, piuttosto, non è che ci stiamo adattando allo sguardo degli altri?»
Specularità
Il «gavage» praticato in Mauritania non è poi così distante dagli interventi di chirurgia estrema
La lezione del film è che diventa facile confondere amore e disamore. Come la protagonista della pellicola si prepara al suo matrimonio (che dovrebbe essere un atto d’amore) distruggendo il proprio corpo, così quella che siamo abituate a chiamare con leggerezza «cura di noi stesse» rischia di diventare una cieca aderenza a stereotipi che non ci appartengono, che non ci assomigliano.
Il regime alimentare imposto a Verida (litri e litri di latte di cammella, cous cous arricchiti con carne da consumare anche nel cuore della notte, dolci e bevande zuccherate) trova una inquietante specularità con le diete massacranti che imponiamo al nostro fisico prima di un evento pubblico. O con pericolose incursioni di chirurgia plastica.
È con questo «bisturi» che Occhipinti ci conduce nel ventre di ogni amore, quello della libertà percepita: all’interno di ogni rapporto c’è uno spazio bianco nel quale spesso ci convinciamo di essere fedeli a noi stesse, forse realizzate, forse felici. Quando, invece, stiamo solo obbedendo a un altro ordine invisibile dettato da uno sguardo altrui.
«Sono arrivata a queste riflessioni – conclude la regista – guardandomi allo specchio e osservando le prime rughe. Mi sono resa conto che accettare la decadenza fisica è molto più difficile di quanto siamo consapevoli».
Però da qualche parte, in Mauritania come in Spagna o Albania, ci sarà sempre un Sidi che non ci pesa ma ci guarda, che non ci «immagina» ma ci «vede», che forse ci aspetta quando non ci riconosciamo più allo specchio.