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 2019  giugno 17 Lunedì calendario

Dietro la maturità

Il grande antropologo Jared Diamond, in Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?, spiega che, rispetto alla nostra, nelle società segnalate nel titolo gli adolescenti sono più autonomi, stabili emotivamente e sicuri di se stessi, perché pratiche educative millenarie accompagnano la maturazione in modo più completo ed efficace delle nostre, che a volte ne fanno una sorta di malattia. L’adolescenza diventa un «problema» se non è vissuta come tappa naturale e necessaria verso l’età adulta, e la sua «patologizzazione» è conseguenza di modelli che faticano a rappresentare l’adulto, irretito da un’adolescenza permanente, del corpo e dell’anima. Diventa adulto chi ha imparato e vuole farsi carico del mondo, ma questo non accade se le soglie di responsabilità (soprattutto nelle relazioni e nel lavoro) svaniscono e se il giovane non è più, agli occhi della generazione precedente, destinatario di un passaggio di testimone, ma oggetto di autocompiacimento o di invidia, se non è addirittura percepito come una minaccia. Se i ragazzi hanno paura di diventare adulti c’è qualcosa che non riusciamo più a trasmettere.
Nella società moderna i riti di passaggio non spariscono, ma vengono privati del loro valore sociale e politico e ridotti a quello sentimentale ed estetico. In una cultura in cui i confini biologici e di ruolo vengono meno, la maturazione sfuma: se si può essere e diventare ciò che si vuole quando si vuole, si è in stato liquido permanente. L’esame di maturità, accompagnato dal primo voto politico e dalla patente, in un passato neanche troppo lontano, era percepito come discrimine tra adolescenza ed età adulta. 13 anni di formazione, per entrare nel mondo delle responsabilità politiche, giuridiche e sociali degli adulti, culminavano nel primo grande esame della vita (non è un caso che per le generazioni precedenti sia oggetto di incubi notturni ricorrenti ad ogni età). Ma oggi, più che una soglia, è una formalità, come mostra sia la percentuale di chi non supera l’esame (0,5% nel 2018), sia il fatto che la valutazione finale è irrilevante per l’ingresso all’università. Della maturità resta il cerimoniale: plichi chiusi con la ceralacca, tracce inviate da oscure entità ministeriali, commissioni composte per metà da estranei, e quest’anno – ci voleva un po’ di suspence televisiva – la busta da pescare per avviare il colloquio orale, imbastendo sul momento mirabolanti collegamenti che da un valore di x tendente a infinito porterebbero al dolce naufragio leopardiano, da Alessandro Magno ad Alessandro Manzoni perché hanno lo stesso nome... È l’ultimo di una serie di esperimenti su cavie umane: quest’anno, quasi al traguardo, ci siamo visti cambiare il tipo di prove – scritte e orali – dopo esserci esercitati per quasi tre anni in altro modo. È sparito anche il tema di storia, perché essendo ormai «individui» che si auto-creano, non abbiamo una storia: se ognuno può essere e diventare ciò che vuole quando vuole, a che serve il passato? È il ribaltamento voluto da una cultura tecno-pragmatica schiacciata sull’attualità e la cronaca. Note positive? Il peso (4/10) dato ai crediti del triennio, a sostegno del fatto che lo studente ha una storia che deve avere un peso; e la complessità della seconda prova (per affrontare la quale però bisogna rivedere il modo di affrontare le materie implicate) in coerenza con quanto studiato nel proprio percorso specifico delle superiori.
La radice di «maturo» è la stessa di «mattina», e indica l’arrivare a tempo, il contrario di un sistema che introduce novità mancando l’essenziale: un esame di maturità, senza collegamento reale con il futuro (né per l’orientamento né per l’esito), dimostra che rappresentiamo il passaggio all’età delle responsabilità quasi come una farsa: serve solo il «pezzo di carta». Per esempio in Spagna i ragazzi affrontano la selectividad, un esame uguale per tutti, in base al risultato del quale ci si può iscrivere a certe facoltà o meno, mentre da noi i ragazzi affrontano i test in modo del tutto scollegato dalla scuola e basato sulla capacità di immagazzinare nozioni da manuali a crocette. Di pari passo inventano riti di passaggio sostitutivi, di stampo individualistico con iniziazioni (sballi, sfide rischiose, feste esagerate...) autogestite. Il mondo adulto finge di accoglierli, in realtà dice loro: divertiti finché puoi, tanto diventare adulti è voler tornare adolescenti. Promettiamo loro una «felicità suicida», come quella del mitico popolo descritto da Leopardi nel «Dialogo tra un fisico e un metafisico»: gli Iperborei sono «immortali, perché non hanno infermità né fatiche né guerre né discordie né carestie né vizi né colpe; nonostante ciò muoiono tutti: perché, in capo a mille anni di vita o circa, sazi della terra, saltano spontaneamente da una certa rupe in mare, e vi si annegano». Ciò che rende la vita insopportabile non è l’assenza di piacere, ma l’assenza di destino e di senso. Per questo i veri riti di passaggio sono prove lunghe e difficili, perché rappresentano la vita così com’è e allenano alla resistenza.
Pochi giorni fa mi sono congedato da una classe che affronta la maturità. Dopo cinque anni di lavoro insieme ho voluto celebrare il rito di passaggio. Li ho salutati leggendo una lettera in cui ripercorrevo le tappe della loro crescita, citando per rapide pennellate i questionari che, di anno in anno, ho fatto loro compilare per definire tratti del carattere, passioni, paure, desideri, progetti, attitudini, fragilità... In cinque anni ho raccolto i «dati» che, per ciascuno, sono diventati una storia. Era il senso del percorso che culminava nella «maturità»: sapere chi sei, pregi e difetti, per provare a diventar la migliore versione possibile di te stesso. Ho detto loro che cosa mi mancherà di ognuno con una frase che definisse l’originalità che avevo visto in ciascuno nei cinque anni. Ho chiesto scusa per i miei errori e per le volte che non sono stato all’altezza della loro unicità e del loro destino, benché io pretenda di insegnare a leggere le mappe della letteratura, cioè della condizione umana, per abitare la quale servono parole precise e faticoso allenamento interiore. La maturità non è solo l’esame ma il lavoro di un lustro, proprio perché maturo significa «arrivare a tempo», dar compimento alla trasformazione unica che avviene tra i 14 e i 18 anni. Non avevamo fatto una scuola finta, che con la vita non c’entra niente, né avevamo perso il tempo, anzi gli avevamo dato un senso, ora per ora, pur con tutti i nostri limiti.
Alla fine li ho chiamati uno a uno alla cattedra e ho regalato loro, con una stretta di mano da uomo a uomo, da uomo a donna, il primo volume di una bellissima edizione della Divina Commedia, nella cui prefazione racconto ciò che Dante significa per me e per ragazzi che lo studiano proprio nei tre anni che portano alla maturità. Ogni libro aveva una dedica personalizzata, perché maturità è rispondere alla vita, finalmente, con il proprio nome e senza alibi. In chiusura ho fatto loro ascoltare la mia canzone preferita, Sempre e per sempre di De Gregori, che dice: «Ho visto gente andare, perdersi e tornare... ma tu non credere/se qualcuno ti dirà/che non sono più lo stesso ormai... Sempre e per sempre/dalla stessa parte mi troverai». Questa era la mia promessa, perché questo per me è maturità: farsi carico della vita e prendersene cura, come si può, nel tempo e nello spazio che ci è dato. Un modo di dire a chi ha il futuro al posto del viso: «adesso tocca a te».
Il letto da rifare oggi è ascoltare la canzone e scrivere su un foglio a chi e cosa vogliamo dedicare le parole del testo. I nomi che scriverete, qualsiasi età abbiate, sono il programma del vostro esame di maturità. Firmatelo e ogni tanto ripassatelo per ricordare chi si aspetta di trovarvi, pur con tutte le vostre fragilità, sempre dalla stessa parte. Buona maturità a tutti.