Corriere della Sera, 17 giugno 2019
Guillaume, la 91esima vittima del Bataclan
La sera del 13 novembre 2015 Guillaume Valette è al Bataclan, tra gli spettatori degli Eagles of Death Metal. Quando i tre terroristi dello Stato islamico Foued Mohamed-Aggad, Ismaël Omar Mostefaï e Samy Amimour cominciano a sparare, alle 21 e 40, lui assiste alla carneficina ma non viene colpito. Si nasconde tra i corpi insanguinati, poi rotola sopra di loro, riesce a sfuggire alla vista dei terroristi e a nascondersi in un armadio. Respira piano con la paura di essere ucciso da un momento all’altro fino a mezzanotte e 20, quando finalmente la Bri (Brigata di ricerca e intervento) della polizia lancia l’assalto finale e elimina il commando di jihadisti.
Guillaume esce illeso, ma solo nel fisico. Passano due anni e il Bataclan è di nuovo una sala da concerto, La Belle Équipe un ristorante accogliente, Guillaume invece non è tornato quello di prima. Dopo mesi di attacchi di panico, depressione e ipocondria a 31 anni si impicca, sabato 18 novembre 2017, nella camera della clinica psichiatrica dove è stato ricoverato sei settimane prima.
Ora i giudici istruttori hanno riconosciuto ai genitori di Guillaume lo status di parti civili nelle indagini sull’attentato, legando quindi direttamente il suicidio di Guillaume a quel che ha patito la sera del massacro. Dopo la conferma della Corte di assise, Guillaume Valette sarà la 91esima vittima dell’attentato del Bataclan, e quindi la 131esima degli attacchi terroristici del 13 novembre 2015 a Parigi e Saint-Denis.
«Per noi è un riconoscimento – dice al Parisien la madre, Arlette Valette -. Noi lo sapevamo già ma avevamo bisogno dell’ufficialità, anche se non attenua il dolore. Dopo la sua morte cerchiamo solo di sopravvivere».
La giustizia
I genitori del ragazzo riconosciuti parti civili nel processo per il massacro del 2015
La madre racconta di un Guillaume che prima del Bataclan era un ragazzo aperto, curioso, con molte passioni, «adorava lo sport, la musica e gli animali». Lavorava in un laboratorio scientifico, aveva una situazione stabile. Ma dopo il 13 novembre non è più riuscito ad avere una vita normale. I genitori gli sono stati vicino ma ben presto ha avuto bisogno anche delle cure degli psichiatri. Ha raccontato quel che aveva vissuto il giorno dopo ma poi si è chiuso nel silenzio, interrotto solo una volta, la sera del primo anniversario della strage. «Eravamo al ristorante – racconta la madre –, a un certo punto piangendo ha detto “non scorderò mai il rumore delle mitragliatrici”. Era molto turbato dall’immagine di una donna che giaceva morta accanto a lui, con gli occhi aperti fissi sul soffitto».
Dopo gli attacchi di panico era diventato ipocondriaco. Nel biglietto che ha lasciato la notte del suicidio si diceva convinto di essere affetto da un (inesistente) tumore all’esofago.
La sua storia e la lotta dei genitori perché venga riconosciuto come una vittima tardiva dell’attentato del 13 novembre riporta in primo piano la questione dell’assistenza agli scampati e ai famigliari delle vittime degli attentati terroristici.
Mercoledì scorso è morto a Nizza Tahar Mejri, 42 anni, di origini tunisine, che la sera del 14 luglio 2016 perse la moglie Olfa e il figlio Kylan, di quattro anni, nell’attentato sulla Promenade des Anglais che costò la vita a 86 persone. Tahar era caduto in una depressione profonda e non si era mai più ripreso. Spesso andava a dormire sul luogo dove era stato ritrovato il suo bambino, portando con sé le scarpette di Kylan. Il suo avvocato Cathy Guittard dice che è morto di crepacuore, «Tahar è la 87esima vittima dell’attentato di Nizza».