la Repubblica, 17 giugno 2019
Quando l’Italia fischiava Zeffirelli
C’era un silenzio frenetico a quella prima di una nuova Aida diretta da Chailly con la regia di uno Zeffirelli già ultraottantenne e in carrozzella: sul palcoscenico Roberto Bolle, in microtanga di fiori, per il resto nudissimo con le più belle natiche mai viste alla Scala e altrove, aveva praticamente azzerato Verdi, nel senso che tutta l’attenzione si concentrava sul suo corpo atletico che volava di qua e di là. Nell’intervallo una commossa fila di antichi zeffirelliani premette davanti al suo palco, maestro ci salvi dalla Bohème nazista e dalle Walchirie al circo, torni a ridarci per sempre armigeri e schiavi, damine settecentesche e tossicolanti dell’Ottocento! Io fui immediatamente cacciata dagli sguardi del Mito che negli anni talvolta mi aveva concesso la parola e talvolta no. Il giorno dopo i critici altezzosi rimpiansero sconsolati la vecchia Aida che Zeffirelli aveva allestito sempre alla Scala nel 1963, diretta dal meraviglioso Giovanni Gavazzeni, e stordente di flabelliferi, portainsegne, sfingi, piramidi e orde etiopi. Tanto eccelsa che con gran brontolamenti del regista, quella nuova venne venduta a scatola chiusa, Bolle o non Bolle. E quella vecchia, preziosa per sempre, è già stata ridata nel 2018.
C’erano stati anni in cui Zeffirelli mi aveva trattato con magnanimità: a Cannes, nel 1986, davano in concorso il suo Otello, film-opera diretta da Lorin Maazel: certo della meraviglia del suo film e di se stesso, sorvegliato dalla cagnetta Bambina, raccontò come Domingo era un Otello perfetto per età, stupidaggine e innocenza, “un negrone stupendo, non semplicemente bronzé ma nero Uganda, la Ricciarelli, la più bianca e burrosa delle donne con quell’incarnato veneto, li faremo restare secchi in Sudafrica e Stati Uniti”. Celeberrimo nel mondo, grandi star americane felicissime di lavorare con lui, in Italia non era affatto amato. La nostra critica cinematografica dichiarata di sinistra come tanti registi e cinefili, obbligava anche noi miti spettatori che oggi verremmo sbeffeggiati come radical chic, a non amare le sue lussuose versioni di Romeo e Giulietta e La bisbetica domata trascurando il fatto che quei film, amatissimi dal pubblico, portavano Shakespeare anche a chi non sapeva chi fosse. Ma già allora un grande critico come Tullio Kezich aveva iniziato un ravvedimento per film come Storia di una capinera, Jane Eyre e Un tè con Mussolini.
Ma il teatro zeffirelliano lo aveva già conquistato, a cominciare da un Romeo and Juliet diretto all’Old Vic di Londra, “una delle vette emozionali della mia carriera di spettatore”. Per non parlare di Dario Fo e Franca Rame che più di sinistra di così, allora, non si poteva essere. Alla mostra di Venezia nel 1988, il valoroso Zeffirelli alla conferenza stampa per il suo film, certo non riuscito, Il giovane Toscanini fu accolto da ululati e pernacchie dei cosiddetti facinorosi in anticipo sul costume dei social. E Franca, indignata: “Mi hanno fischiato tutta la vita, sono tutta un brivido per lui, vado a dargli dei baci”. Dario: “Ecco qui la via Crucis, questi selvaggi sembrano formiche che divorano un bacherozzo”. Andai a trovarlo a Roma, nella sua villa sull’Appia Antica un po’ stile Liberace, affacciata su un bel giardino: dappertutto foto sue di quando era un bel ciuffone biondo nel film L’onorevole Angelina con Anna Magnani, 1947, della regina Elisabetta II con tiara che gli dà la mano, con la Callas che bacia a occhi chiusi, con Tennessee Williams e Leonard Bernstein, a Hollywood con Dino Risi. Su una parete bianca, sola, la foto di Luchino Visconti di Horst. Il maestro, il protettore, l’amante, poi anche l’ostacolo: come quando il giovane Franco si era conquistato una prima regia teatrale, la Lulù di Bertolazzi, e Visconti in platea con molti amici continuò a fischiare. Un’altra volta, racconta nella sua autobiografia, nella casa dove vivevano insieme, scomparvero piatti d’oro e altro: fu fermato, portato in commissariato, interrogato. “Luchino non disse una parola… alla fine però non ero che l’amante di un uomo famoso che in realtà non si fidava di me e che non mi aveva mai veramente accolto nello stretto cuore della sua vita”. Poi ci fu il grande errore di entrare in politica per amore di Berlusconi, eletto senatore con Forza Italia per due mandati, 1994-1996. Anticomunista va bene, ma eccessivo certo il suo sostegno a una proposta di legge che per tutelare l’embrione pretendeva la condanna a morte per le “assassine” in ricordo della cara mamma, ragazza madre che aveva rifiutato di abortire. La sua bella autobiografia uscì in tutto il mondo nel 1986: da noi vent’anni dopo. Ho riaperto la versione inglese e sorpresa massima: me l’aveva regalata lui, gennaio 1999, con dedica “alla cara Natalia"!