la Repubblica, 17 giugno 2019
Intervista a Lucinda Riley
Cinquanta sfumature di rosa? «Non bisogna giudicare i libri dalla copertina», ammonisce Lucinda Riley. «E nemmeno le persone». Se si presenta all’appuntamento con le aspettative sbagliate, il cronista può essere scusato: la 51enne scrittrice irlandese ha venduto 20 milioni di copie in tutto il mondo, di cui un milione soltanto in Italia, con decine di romanzi d’amore – l’ultimo, La stanza delle farfalle esce in questi giorni nel nostro paese per Giunti – fra i quali romantiche saghe familiari come Le sette sorelle, i cui diritti sono stati acquistati da Hollywood «per la precisione, da De Laurentis», per farne un serial. Ma appena seduti nel living-room affacciato sul Tamigi nella casa londinese dell’autrice (ne ha altre due, nel Norfolk e in Costa Azzurra), la conversazione prende una piega inattesa, davanti alla banale domanda di rito: Buongiorno, come sta? «Per la verità sono appena tornata dall’ospedale». Niente di grave, si spera. “Due anni fa mi hanno diagnosticato un cancro. Non ne ho mai parlato con nessuno, ma quando lei è entrato nella stanza le ho dato un’occhiata e ho deciso: adesso glielo dico”. Il colore rosa, con cui si suole identificare un certo tipo di narrativa, a questo punto svanisce, lasciando emergere nel corso dell’intervista altre tonalità, letterarie ed esistenziali: noir, drammatico, mistery. O se proprio vogliamo restare nel genere, rosa shocking.
Non scriverò della sua malattia, Mrs. Riley.
«Ne scriva, invece. L’ho tenuta nascosta perché non volevo essere compatita. E nemmeno definita una “guerriera”, come si fa in questi casi: il cancro non è una guerra, è un male come altri. Oggi ho deciso di parlarne non solo perché mi sento meglio, incrociando le dita, ma anche per la lezione che contiene».
Cosa le ha insegnato?
«A vivere alla giornata. Troppo spesso abbiamo il vizio di fissarci su passato e futuro, tralasciando il presente, che è il momento più importante».
"Carpe diem”, dicevano i latini.
E inoltre mi ha fatto scoprire di essere uno spirito forte. È bello accorgersi di avere risorse che non sospettavi».
Lo spirito irlandese dei suoi natali?
«Forse. Mi sento discendente dei celti. Sono irlandese all’80 per cento: un esame del dna ha rivelato che il resto delle mie origini è inglese e vichingo, con una spruzzata d’Africa. Siamo tutti multietnici, checché ne dicano i tifosi della Brexit».
A cui è contraria?
«Contraria? La detesto!».
Non lo scriverò, per non farle perdere i lettori brexitiani.
«Scriva anche questo, invece! Al diavolo la Brexit! E al diavolo Trump, venuto a Londra a farci vedere da vicino quanto è patetico».
Le piaceva fare l’attrice, il suo mestiere fino a 23 anni?
Molto. Ma per me era come scrivere: in entrambi i casi significa vivere le
vite degli altri, lavorare di fantasia».
Perché ha lasciato la recitazione?
«Per una grave malattia, poi guarita.
Durante la convalescenza cominciai a scrivere: ho pubblicato il primo romanzo a 24 anni, è diventato un best-seller e non ho più smesso».
Si è sempre sentita scrittrice?
«Mi sono sempre s entita narratrice.
Le mie opere non vincono concorsi letterari, anche se in Italia sono arrivata seconda al Bancarella. Fa lo stesso. Mi piace raccontare storie e ne ho la testa piena. Non capisco il cosiddetto blocco dello scrittore. Ho il problema opposto: temo di non avere il tempo di raccontare tutto ciò che ho dentro. In ospedale, prima di perdere conoscenza sotto sedazione, mi venivano in mente trame e personaggi. Vivo nel mondo dell’immaginazione».
Da dove ha preso questo dono?
«Da mio padre, che da piccola mi raccontava storie in continuazione.
Lui stesso era un personaggio romanzesco. Ci ha fatto girare il mondo, sempre di corsa e stranamente assistiti dall’ambasciata locale. Ho un ricordo di noi nei vicoli di Napoli quando avevo 3 anni. È morto senza dirmi cosa facesse ma credo fosse un agente dell’Mi6, lo spionaggio britannico».
Quale è il suo metodo per scrivere?
«Non ho una scaletta. Parto da un’idea, procedo seguendo la voce interiore. E all’inizio non scrivo, detto».
Detta a chi?
«A un dittafono. Detto il romanzo, la mia assistente stampa la trascrizione e poi riscrivo, correggo, taglio».
Le secca essere definita un’autrice di romanzi romantici?
«È sbagliato giudicare un libro dalla copertina o una persona dall’aspetto. Ex-attrice, bionda, occhi azzurri, posso fare pensare a un certo stereotipo di donna. Non fidarsi mai degli stereotipi».
Come chiamare allora i suoi romanzi?
«Dipende dai libri. Ne ho scritti alcuni che fanno ridere e li considero commedie. Altri sono drammatici.
Altri ancora romanzi storici. C’è la grande saga familiare delle Sette sorelle. Ho scritto anche un thriller, ancora non pubblicato. Certo, nelle
mie storie c’è anche l’amore. Un elemento importante, non trova?».
Concordo. Ma che tipo di libro è il nuovo “La stanza delle farfalle”?
L’idea di partenza era immaginarmi a 70 anni. Come avrei rivisto la mia vita? Cosa sarebbe successo se avessi fatto scelte diverse? Si può dare una seconda chance a un vecchio amore? Ci sono volute 600 pagine per rispondere”.
L’ultima domanda che avevo preparato era come ha fatto a costruire una vita così rosea, Lucinda: un matrimonio felice, quattro figli, una casa nel sud della Francia, una marea di bestseller. Ma mi rendo conto, al termine dell’intervista, che il colore rosa non le fa pienamente giustizia.
«Senta, ho avuto più drammi di un romanzo. La prima moglie di mio marito è morta partorendo la figlia che ho adottato; la seconda è finita in carcere perché ci minacciava. Abbiamo fatto bancarotta. Aggiunga la mia malattia giovanile e ora questa. Nessuno ha tutto. La vita è un ottovolante: sali e scendi. Diventa una linea retta solo quando muori».