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 2019  giugno 17 Lunedì calendario

Mette Frederiksen, il leader del Partito socialdemocratico danese che ha vinto andanto contro i migranti


«Piacere, Arne Arnhelm. Ho 53 anni, sono ingegnere a Roskilde e se cerca una persona un po’ in crisi, con testa e cuore progressisti ma pancia a destra, l’ha trovata». Eccolo qui – spuntato da nulla in mezzo alla folla della Festa del popolo nell’isola danese di Bornholm – l’ homo novus (o il pericoloso mutante, dipende dai punti di vista) della sinistra europea. Segni particolari: democratico, anti-fascista, strenuo difensore del welfare scandinavo e paladino dei più deboli. Tutti, con un’unica eccezione: i 510mila migranti, su 5,8 milioni di abitanti, scappati da guerre e fame per cercare una nuova vita in Danimarca.
Il copyright di questo ibrido ideologico – vincente, pare, alle elezioni – è di Mette Frederiksen, 41enne leader del Partito socialdemocratico (Sf) di Copenhagen. «Siamo compassionevoli, ma c’è un limite agli stranieri che possiamo accettare – è il suo mantra –. E non voler che il tuo Paese cambi non fa di te una persona cattiva». Anche Arne la pensa così. «Ha avuto il coraggio di dire quello che in strada, senza ipocrisia, sappiamo tutti: l’accoglienza non può essere infinita e cieca». Parole? No fatti. «La compagna Frederiksen» – come la chiama lui – ha votato con l’ex-governo di destra l’ok alla confisca di gioielli e i soldi ai rifugiati per pagare il loro mantenimento, le leggi che proibiscono burqa e niqab, quelle che obbligano i bambini stranieri a seguire 25 ore settimanali di lezioni di “valori danesi”.
Eresie, viste da sinistra. «Ma eresie che hanno pagato nelle urne» spiega Kaspar Hansen, professore di politica all’università di Copenaghen. «Il 5 giugno, dopo 8 anni di voti dati con dolore ai conservatori, sono tornato a metter la croce sulla rosa dell’Sf» dice Arne. Lo stesso percorso l’hanno fatto in tanti. «Specie l’ex zoccolo duro di impiegati e operai del partito», dice Hansen. Risultato: i consensi rubati alla destra hanno compensato i voti socialdemocratici fuggiti – causa svolta salviniana – verso la sinistra dell’accoglienza, che ha raddoppiato i consensi. Il fronte progressista è maggioranza in parlamento. E Sf – primo partito con il 25,9% (poco meno della tornata precedente) – ha l’incarico di formare il governo. Un esecutivo di minoranza, è il sogno di Frederiksen pronto a trovare a sinistra i voti per combattere il riscaldamento globale, abbassare l’età pensionabile, difendere il welfare e alzare le tasse a ricchi e banche. Ma disposto a pescare a destra quelli necessari per gestire il “nodo” migranti.
Arne non è l’unica persona in cerca di nuove bussole ideali tra i 100mila ospiti del festival di Bornholm. «Negli ultimi dieci anni in Danimarca è cambiato tutto – ammette Emma Clausent, giovane militante dell’alleanza rosso-verde in coda per entrare a un dibattito della Woodstock della politica danese –. Specie le nostre certezze». Incrinate – sostiene lei – dagli scricchiolii del mitologico welfare di Copenhagen. «Mia nonna da due anni è costretta a pagare una quota delle spese per la pulizia di camera sua, in casa di riposo» spiega scandalizzata: 700 corone (meno di cento euro) al mese, briciole. Ma fastidiosissime per chi ha sempre avuto tutto pagato dallo Stato. Il taglio del 25% a ospedali e scuole per motivi di efficienza ha fatto il resto: il numero di danesi con assicurazione sanitaria privata è salito dal 3% del 2003 al 33%. E le briciole sono diventate una valanga che ha finito per travolgere i migranti. «L’economia va – precisa Helge Pedersen, capo economista di Nordea Bank – Il pil cresce del 2% l’anno, la disoccupazione è al 5%. Ma il Paese invecchia rapidamente. E i rifugiati, che costano 4,5 miliardi l’anno, sono diventati capri espiatori».
Un bersaglio facile. I 45mila arrivati in Danimarca tra 2015 e 2016 hanno surriscaldato il dibattito politico, rimasti caldissimi anche ora che le richieste di asilo sono crollate (dati 2018) a poco più di mille. «La Danimarca ci ospita, mi ha dato casa e scuola per le figlie – dice Fatima Tunsi, davanti al supermercato Aldi di Tingbjerg, sei km. dal centro di Copenaghen – ma ha fatto l’errore di segregarci in una sorta di “Paese parallelo"». Ventinove aree che il governo classifica senza ipocrisia come “ghetti”. «Qui vice una legge che vale solo per noi», spiega Fatima. I reati commessi tra i vicoli delle case color ocra di Tingbierg – malgrado le proteste di Ong e Onu – hanno pene maggiorate rispetto al resto del Paese. E una nuova legge prevede di “normalizzare” questi distretti imponendo che il 40% delle case nell’area – edilizia popolare – siano affittate o vendute a privati. Anche a costo di abbattere quelle esistenti senza preoccuparsi troppo della fine che faranno gli occupanti.
La sinistra “accogliente” fatica a mandare giù queste forzature. Vuole un governo progressista («welfare e clima sono stati i veri temi della campagna elettorale», dice Hansen). E sta cercando di ammorbidire la linea-Frederiksen in cambio dell’ok al governo di minoranza. Il caso più spinoso «per cui io non ho una soluzione», ammette la leader rosso verde Pernille Skipper, è quello di Lindholm. Un’isola dove oggi sono segregati per studi virologici gli animali infetti, destinata a diventare nel 2021 la casa-galera di un centinaio di immigrati autori di reati privi di asilo politico e impossibili da rimpatriare. «Non è una scelta in linea con le nostre tradizioni» sostiene Lars Holtug marinaio dell’Ulvsund, che tutti chiamano “Virus”, il traghetto che fa la spola tra la terraferma e Lindholm. «Capisco la realpolitik – dice –. Ma tradire gli ideali non lo accetto. Magari si salverà politicamente la pelle. Ma così si rischia di perdere l’anima».