17 giugno 2019
Tags : Paul Mccartney
Biografia di Paul McCartney
Paul McCartney (James Paul M.), nato a Liverpool (Inghilterra) il 18 giugno 1942 (77 anni). Cantautore. Polistrumentista. Compositore. Cofondatore dei Beatles. Circa 600 milioni di dischi venduti (di cui 500 milioni con i Beatles). «Io e John siamo cresciuti insieme, nello stesso ambiente e con le stesse influenze, lui sapeva che dischi ascoltavo io e io quelli che ascoltava lui. Abbiamo scritto le nostre primissime innocenti canzoni insieme, poi ci siamo ritrovati a scriverne altre che venivano registrate e pubblicate. […] Siamo stati sulla stessa scala mobile, anzi sullo stesso gradino della scala mobile, dall’inizio fino alla fine. Quell’epoca, quell’amicizia e quel tipo di legame sono assolutamente irripetibili. […] Non c’è nessuno che può superare John. E John direbbe lo stesso di Paul» (a David Fricke) • «Il fattore cruciale era che Liverpool era un porto. C’erano sempre marinai che arrivavano con dischi di blues da New Orleans, dall’America. Cose di varie etnie: potevi ascoltare musica africana, o il calypso grazie alla comunità caraibica, che credo fosse la più antica in Inghilterra. Con tutte quelle influenze, dalla radio in casa ai marinai, agli immigrati, era un enorme melting pot musicale. E probabilmente noi prendevamo quel che ci piaceva da tutto questo. […] I primi ricordi sono quelli di mio padre che suonava il piano a casa. Era un venditore di cotone, e aveva imparato a suonare il piano a orecchio quand’era bambino. Aveva fatto parte di un gruppo chiamato Jimmy Mac’s Jazz Band. Quand’eravamo piccoli, io mi stendevo sul tappeto e lo ascoltavo mentre suonava cose tipo Stairway to Paradise di Paul Whiteman, o Lullaby of the Leaves, che mi piaceva molto, o un paio di pezzi scritti da lui. Improvvisava al piano, ed era meraviglioso. Aveva un amico alla Borsa del cotone, un altro venditore di nome Freddie Rimmer, che veniva a suonare qualcosa, quindi c’era un’atmosfera molto musicale in casa. C’era sempre un pianoforte. A capodanno si faceva una grande festa di famiglia. Qualcuno si metteva al piano, e il più delle volte era mio padre. Lui mi diceva sempre: “Impara a suonare il piano e sarai invitato a un sacco di feste”. […] Era il 1956. Avevamo la tv, e una sera sentimmo questa notizia: “Una scena di devastazione: teddy boys e rockers hanno devastato alcuni cinema a Londra. Ed ecco la causa di quell’agitazione: ‘One-two-three o’clock, four o’clock rock…’”. Era, naturalmente, l’attacco di Rock Around the Clock di Bill Haley & His Comets. La canzone faceva parte della colonna sonora del film Il seme della violenza, e le proiezioni in Gran Bretagna scatenarono disordini fra gli adolescenti. Per la prima volta in vita mia provai una scarica elettrica. Questo fa per me! Ma sono un primitivo. Non voglio imparare la musica. Non mi piace, davvero. È troppo impegnativo, somiglia a un compito. È questo che mi ha fatto passare la voglia di imparare a suonare il piano». Quando, nell’ottobre 1956, la madre di McCartney, un’infermiera, morì di cancro, il padre anche per spronarlo a reagire gli regalò una tromba, che il ragazzo però barattò con una chitarra, appassionandovisi rapidamente. «Ho un ricordo vivido dell’anno 1957. Avevo quindici anni, il mio amico del cuore si chiamava Ivan, frequentavamo la stessa classe, ma lui era anche molto legato a un altro gruppo di ragazzi della sua zona, e non faceva che parlarmi di "un certo John che aveva diciassette anni e aveva una band…". Era il 6 di luglio, la scuola era finita. Insistette per portarmi a una fiera organizzata dalla parrocchia. Ascoltai John cantare, poi Ivan me lo presentò. […] Ricordo come fosse ora il momento in cui scivolai dietro il palco e feci ascoltare a John Lennon quella canzone, Twenty Flight Rock, che Eddie Cochran aveva pubblicato proprio quell’anno. Mi accompagnai con la chitarra, cercando in tutti i modi di fare buona impressione. A quanto pare, funzionò: due settimane più tardi mi chiese se volevo far parte dei Quarrymen. Ero eccitatissimo, felice» (a Giuseppe Videtti). Quel ragazzo era ovviamente John Lennon (1940-1980): alla fine degli anni Cinquanta il gruppo mutò più volte nome e formazione, ma a guidarlo furono sempre Lennon e McCartney, che ben presto vi introdusse il suo compagno di scuola George Harrison (1943-2001). «Il nome del gruppo lo decide John: prima “The Quarrymen”, poi “Silver Beatles”, infine “Beatles”. II riferimento alla beat generation americana è evidente: una generazione che si interroga, cerca di aprirsi una via» (Sandro Cappelletto). «Erano cresciuti nel dopoguerra, in un’Inghilterra ancora tradizionalista. Figli di famiglie povere, erano stati cambiati dall’esplosione del rock’n’roll, dalla musica di Elvis e Chuck Berry, che aveva mostrato loro la possibilità di una nuova vita, fuori delle regole scritte per loro da genitori, scuola, società. La musica era la chiave di volta per trasformare i sogni in realtà. Ma il rock’n’roll non era abbastanza: serviva qualcos’altro, e quel qualcos’altro lo inventarono loro, trasformando il "beat" in "rock" e il mondo nel loro territorio di conquista. […] Andarono in Germania, ad Amburgo, ancora adolescenti, a prendere le misure della nuova musica tra i night della città» (Ernesto Assante). «Quando ci offrirono di suonare ad Amburgo, io andavo ancora a scuola. Al massimo sarei diventato un maestro elementare. Avevo il terrore di rimanere imprigionato in un blocco di cemento. […] Forse qualcuno si era accorto che a Liverpool c’erano un sacco di ottime band. E soprattutto che costavano meno di quelle londinesi. In fondo, eravamo il sogno di qualsiasi promoter. Ci dissero: "Potete andare ad Amburgo e guadagnare 15 sterline a settimana". Che era più del salario di mio padre e più di quello di un maestro» (Videtti). «Eravamo ad Amburgo intorno al 1961. Stuart Sutcliffe, il nostro uomo al basso, s’invaghisce di una fanciulla di nome Astrid [una fotografa, cui peraltro si deve l’ideazione del taglio di capelli che con cui il gruppo divenne celebre – ndr] e molla tutto. Decide che nella vita vuole solo fare l’amore e dipingere. Due attività nobili, ma poco remunerative. Però, contento lui… Per come era la musica allora, il ruolo del bassista corrispondeva a quello dello sfigato del gruppo. Quello timido e un po’ goffo che se ne sta in un angolo del palco al buio. Ecco, io non volevo entrare in quella parte. Poi ho accettato e, tutto sommato, ho ridato dignità a un ruolo che tutti consideravano minore e defilato» (a Gianni Poglio). «Tornarono pronti ad affrontare il pubblico inglese, a muoversi da Liverpool e dai piccoli club per andare a Londra a cercare un contratto. Fu Brian Epstein, il loro manager, a portarli alla Emi, fargli incontrare George Martin ed entrare ad Abbey Road. Fu lì che arrivò anche Ringo» (Assante). «Era il 5 ottobre del 1962, e nei negozi comparve un singolo firmato da uno sconosciuto gruppo di ragazzi appartenenti a una nouvelle vague che fu definita Merseybeat, dal fiume Mersey che attraversa Liverpool. Erano quattro, anzi i "favolosi quattro", con un nome che era già un nonsense: Beatles, deformazione di beetles, "scarafaggi", ma con un "a" che avvicinava il nome al beat, o ironicamente al suono di beatless, ovvero “senza beat”. Quel singolo, invece, intitolato semplicemente Love Me Do, di ritmo ne aveva molto, e di una qualità del tutto particolare. Spesso in musica basta poco. E in quel caso fu sufficiente che il rullante della batteria picchiasse con un impercettibile ritardo, rispetto al tipico ritmo americano, e che il pezzo partisse direttamente col ritornello, una ripetizione ostinata, dal tono vagamente blues, sottolineata da un’armonica a bocca (suonata da Lennon) diretta e senza fronzoli, a sostegno di voci magnifiche e scintillanti. Nulla di che, potremmo dire oggi, ma fu come uno squillo di tromba. Leggenda vuole che il loro adorante manager Brian Epstein abbia comprato qualche migliaia di copie del singolo perché fosse subito percepito come un successo. Sta di fatto che Love Me Do, […] che Paul McCartney aveva scritto nel 1958, secondo la leggenda una mattina in cui aveva marinato la scuola, aggiustandola poi con John Lennon, […] colpì subito nel segno e apri la strada ai successivi singoli, Please Please Me, She Loves You, From Me to You, che nel giro di pochi mesi proiettarono i Beatles sulla vetta di una montagna che loro stessi avevano creato, dal nulla» (Gino Castaldo). «Epstein tira fuori i Beatles da The Cavern, il locale di Liverpool, e li porta in tournée. […] Tutto è ancora un gioco. Che l’Inghilterra ufficiale prende sul serio: il 12 luglio 1965, la regina Elisabetta li nomina baronetti “per i particolari servigi resi alla Corona”. Nel concerto alla presenza di Sua Maestà. Lennon così si rivolge al pubblico: “Chi ha comprato i biglietti meno costosi può battere le mani, gli altri guardino i propri gioielli”. Può permettersi tutto: “Oggi i Beatles sono più popolari di Gesù Cristo”, afferma. Non aveva torto, allora» (Cappelletto). «Per quanto registrate con il marchio paritetico Lennon-McCartney sulla base di un accordo giovanile che Paul di recente ha provato a ricontrattare, sono sue le ballad più famose del gruppo: Yesterday, Michelle, Hey Jude, Let It Be. Lui il bravo ragazzo e John il bad boy del gruppo? Non proprio: il giovane McCartney s’è inventato il concept psichedelico di Sgt. Pepper, la canzone che ha ispirato a Charles Manson il massacro di Cielo Drive (Helter Skelter) e persino l’esplicito blues Why Don’t We Do It in the Road?. Perché il bello della liaison artistica tra John e Paul stava proprio in quel lasciarsi contaminare reciprocamente. E senza McCartney i Fab non si sarebbero mai spinti fino al sinfonico lato b di Abbey Road» (Francesco Prisco). «Avrei bisogno di tre anni per raccontare quello che accadde dal ’57 al ’67. Tutto cambiò di colpo: diventammo molto famosi in quei dieci anni, prima molto conosciuti, poi straordinariamente popolari, infine universalmente noti. Non solo le nostre vite, ma anche le nostre menti cominciarono a espandersi in territori sconosciuti. Poco dopo, incontrai Linda, e iniziò un nuovo periodo». «Il 31 dicembre del 1970 Paul McCartney chiede ufficialmente lo scioglimento "legale" dei Beatles, sancendo definitivamente una frattura che era già in atto da tempo» (Assante). «McCartney l’ha finalmente dichiarato fuori dai denti: "Il nostro scioglimento fu un disastro". Ma all’epoca i Fab Four non avevano né tempo né voglia di valutare le conseguenze del loro gesto. In meno di un decennio avevano sconvolto le sorti del rock’n’roll ed erano già leggenda. L’amico-nemico John Lennon avrebbe ricordato: […] "Nell’ultimo periodo dei Beatles, mi chiamò un pomeriggio e disse che stava per pubblicare un album come solista e aveva deciso di lasciare il gruppo. Mi parve strano: per una volta era Paul a dirlo, e non io". […] "Non fu solo Paul a lasciare i Beatles: ognuno di noi lo fece per un motivo diverso, Ringo perché voleva fare cinema, John perché faceva i bed-in con Yoko e io per una discussione con Paul su una questione musicale", ricordava George Harrison. Ma Ringo puntualizza che, se c’era uno che non sarebbe mai tornato sui suoi passi, era proprio Paul: "Quando arrivò la fine del gruppo, all’epoca in cui stava per uscire Let It Be, Paul aveva pronto il suo primo disco come solista, e si arrabbiò quando gli chiesi di posticiparlo. Alzò la voce, era fuori di sé. Teneva minacciosamente il dito puntato verso la mia faccia: ‘Rimettiti il cappotto e vattene da casa mia’, disse"» (Videtti). «La carriera solista di Paul partì, non senza un sapore polemico, quando, almeno ufficialmente, i Beatles esistevano ancora. Anzi, fu proprio l’uscita del suo primo album, intitolato semplicemente McCartney, ad annunciarne la fine. Era il 10 aprile del 1970, e in un colpo solo Paul annunciò che lasciava il gruppo e che pochi giorni dopo sarebbe uscito il primo disco a suo nome. E un disco solista lo era a tutti gli effetti. Paul si era chiuso a casa e poi negli studi di Abbey Road, e aveva fatto tutto, ma proprio tutto, da solo, suonando tutti gli strumenti e lasciando nelle tracce la scia luminosa dello stile beatlesiano. Sembrava uno sfogo, un’impennata d’orgoglio, la risposta musicale ai dissidi che avevano lacerato l’ultimo periodo della vita del gruppo. Sta di fatto che McCartney, così come il secondo, bellissimo disco Ram, sembrano a tutti gli effetti un prolungamento solitario dell’èra Beatles, immersi in un’aura ancora splendidamente legata a quella irripetibile avventura artistica, con molti preziosi gioielli. Da lì iniziò la lunga e prolifica carriera solista di uno dei compositori più importanti del secolo scorso. Non senza difficoltà, considerando che da quel momento dovette confrontarsi con la più potente icona musicale mai generata dalla cultura pop, e in molti casi le sue scelte sembrarono orientate a fare il possibile per scrollarsi di dosso quell’ingombrante e insuperabile precedente, soprattutto quando mise in piedi i Wings. […] Volle intitolare McCartney II il primo disco che incise dopo aver sciolto i Wings, e questa svolta coincise col recupero graduale del suo patrimonio storico. Se fino a tutti gli anni ’70 sembrava impegnatissimo a essere qualcosa di diverso da quello che era stato, negli anni ’80 iniziò a riconciliarsi con l’ingombrante, ma anche meraviglioso, fardello beatlesiano. Nel 1982 pubblicò Tug of War, il primo dopo che Lennon era stato assassinato, all’interno del quale c’erano Here Today, struggente dedica all’amico scomparso, e il celebre duetto con Stevie Wonder per Ebony and Ivory. Nel 1983 pubblicò Pipes of Peace, con un altro celebre duetto, Say Say Say con Michael Jackson, e già con Give My Regards to Broad Street, colonna sonora del film omonimo, riprese in mano alcune canzoni del vecchio repertorio. Del resto, era paradossale che, avendo scritto alcune delle più belle canzoni della storia, dovesse farne a meno solo per tenere a distanza il mito. Quando incise Flowers in the Dirt, nel 1989, chiamò Elvis Costello come coautore di alcuni testi, e ammise che l’aveva fatto perché sentiva la mancanza di John. In quello stesso anno si lanciò in un tour mondiale in cui per la prima volta cantava molte canzoni del repertorio beatlesiano. E da quel momento i suoi concerti sono diventati un tripudio festoso» (Castaldo). Tuttora attivo sia in studio di registrazione sia sul palco, dagli anni Novanta a oggi McCartney ha pubblicato complessivamente una ventina di nuovi album, l’ultimo dei quali, Egypt Station, nel settembre 2018. «L’album ha una serie di pezzi eccezionali, da Confidante, piacevole e acustica, ai sette minuti di Despite Repeated Warnings, passando per il procedere tronfio del rock di Who Cares, e offre quel che ci si aspetta da un disco di McCartney del 2018: comprende cinque o sei pezzi che Paul può suonare durante i concerti senza che sembrino degli impostori che sostituiscono Love Me Do. Il primo singolo, I Don’t Know, è una delle sue migliori melodie da anni» (Jonathan Dean). «C’è qualcosa di Paul McCartney che è rimasto intatto in tutti questi decenni: il gusto per la melodia. Basta ascoltare i primi versi di I Don’t Know per rendersi conto che […] è rimasto probabilmente il miglior compositore di musica pop in circolazione, e non è un complimento per i più giovani. Se il suo nuovo Egypt Station, che arriva cinque anni dopo New (ormai lui, come gli Stones, fa dischi per festeggiare i compleanni importanti), è sostanzialmente inattaccabile, molto dipende dalla sua capacità di rimanere curioso senza però snaturarsi: Macca rimane Macca anche se scrive con Ryan Tedder dei super-pompati One Republic il peggior pezzo del disco, ossia Fuh You, con l’imbarazzante ritornello “I just want it fuh you”, che andrebbe bene per una boy band. […] È difficile perdere la concentrazione in questi 57 minuti di musica, perché lui, vecchio maestro, ha costruito una scaletta di alti e bassi che impedisce la distrazione. La leggerezza (con arrangiamenti quasi lounge) di Back in Brazil compensa il piccolo capolavoro del disco, quella Dominoes che potrebbe uscire dal White Album dei Beatles ma non ha polvere addosso: è fresca, niente cicatrici della nostalgia. Questo è Paul McCartney, signori» (Paolo Giordano) • «Incredibile, c’è ancora chi crede a quell’antica leggenda metropolitana. La misero in giro nel 1969, quando tutti si affannavano a trovare una spiegazione allo scioglimento dei Beatles. Dicevano che il vero Paul era morto il 9 novembre 1966, decapitato in un truce incidente stradale. All’epoca ci fu anche un attore squattrinato, certo William Campbell, che dichiarò di essere stato contattato, a causa della sua somiglianza con Paul, per rimpiazzare il Beatle defunto nel gruppo rock più famoso del mondo. La verità è assai più banale: […] Paul, che era ancora fidanzato con l’attrice Jane Asher, era a casa del suo blasonato amico Tara Browne, in trip lisergico e con lo spinello in mano. Fu proprio Browne, allora ventunenne e presumibilmente sballato, a schiantarsi con la sua Lotus Elan contro un camion parcheggiato in una via del centro. Quando lesse la notizia sui giornali, Lennon scrisse di getto A Day In The Life, uno dei capolavori di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band» (Videtti) • Tre matrimoni, cinque figli: amatissima la prima moglie, la fotografa statunitense Linda Eastman (1941-1998) – peraltro al suo fianco, in veste di tastierista e cantante (dalle capacità molto discusse), nei Wings –, di cui adottò la figlia di primo letto Heather (1962), artista, e dalla quale ebbe anche Mary (1969), fotografa, Stella (1971), nota stilista, e James (1977), musicista e cantautore; breve e infelice il matrimonio con l’ex modella e attivista Heather Mills (1968) – sposata pochi anni dopo la morte per cancro della Eastman, particolarmente traumatica per McCartney –, da cui ebbe Beatrice Milly (2003), ottenuta in affidamento condiviso in seguito all’aspro divorzio dei due; sereno, invece, il rapporto con la terza e attuale consorte, l’ereditiera Nancy Shevell, cui nel 2013 dedicò l’album New («È lei la cosa nuova nella mia vita. È stato un risveglio: lei mi ha fatto venire voglia di scrivere canzoni positive») • «Gesù, dice, ha detto un sacco di cose straordinarie e la Bibbia un sacco di cose tremende, per lo più sulla vendetta. Quindi lui sceglie da diverse religioni come fosse un cesto di ciliegie per creare la propria fede. “Ma credo davvero che esista un’entità superiore”, dice abbastanza inaspettatamente. Tipo cosa? “Non ne ho idea! Ma è una sensazione che provo grazie a delle esperienze che ho vissuto. Una volta ho preso una droga, il Dmt. C’era questo gallerista, Robert Fraser, io, e un paio di altre persone. Ci trovammo improvvisamente inchiodati sul divano. E io vidi Dio, questo essere straordinario che torreggiava su di me, e mi sentii umile. Quello che voglio dire è che quell’attimo non ha certo cambiato la mia vita: ma fu un indizio”. E che aspetto aveva Dio? “Era grandissimo. Un muro enorme di cui non vedevo la sommità, e io ero giù in fondo. Sì, chiunque avrebbe detto che era solo la droga, un’allucinazione. Ma sia io che Robert dicemmo: ‘L’hai visto?’. Avevamo la sensazione di aver visto un’entità superiore”» (Dean) • Grande simpatia per la regina Elisabetta II, «fin dalla sua incoronazione. Aveva dieci anni quando scrisse un tema su di lei, grazie al quale vinse un paio di libri. Già a quei tempi gli piaceva: si conoscono da mezzo secolo. […] “Se si guarda la storia, la regina Elisabetta I ha avuto Walter Raleigh”, lo scrittore-esploratore che lanciò il mito dell’El Dorado, “e la regina Elisabetta II ha avuto i Beatles”» (Dean). Nel giugno 2012 una lunga esibizione McCartney nei giardini di Buckingham Palace concluse il concerto celebrativo del Giubileo di diamante della sovrana • Vegetariano • «McCartney non sa leggere né scrivere la musica» (Laura Putti) • «La musica è come uno psichiatra: alla tua chitarra puoi dire cose che non diresti mai alle persone, e ti darà delle risposte che le persone non sanno darti» • «Non voglio sembrare presuntuoso, ma il nostro lavoro sui pezzi era straordinario. C’era la massima cura dei dettagli, l’ossessione maniacale per avere ritornelli memorabili, la voglia di sperimentare e di rifare un coro anche trenta volte finché non aveva raggiunto l’amalgama perfetto tra le voci. Se curi tutto questo con la determinazione di un artigiano, ottieni la canzone perfetta. Noi quattro abbiamo avuto il massimo rispetto per la musica. Abbiamo trattato le nostre canzoni con la cura e l’attenzione dei grandi architetti classici. Nessun edificio moderno può reggere la competizione con le grandi opere del passato. Perché dietro le grandi opere c’è sempre un grande lavoro. Dietro molta della musica di oggi non c’è invece nessun lavoro. E si sente» • «Io pubblico i dischi e poi sono così stupido da andare a vedere cosa ne pensano i critici. C’è stato uno del New York Times che ha stroncato Sgt. Pepper’s quando è uscito. La cosa terribile è che una cosa del genere ti provoca una sensazione di rifiuto nei confronti delle cose che tu stesso hai creato. Ha un effetto sulle tue insicurezze e i tuoi dubbi, anche se per scrivere quella canzone hai già dovuto superare molte delle tue insicurezze e dei tuoi dubbi. Ti rimane solo l’odore della musica, una folata di qualcosa che non è molto buono e ti resta appiccicato addosso. Poi, a un certo punto, vieni salvato. Un giorno mio nipote Jay mi ha detto: “Ram è il mio album preferito di tutti i tempi”. Per me era un disco morto e sepolto, poi l’ho ascoltato e ho detto: “Wow, ora capisco quello che stavo facendo”» • «L’uomo che ha inventato il pop e le popstar. “Colleghi, senza Paul McCartney, oggi saremmo tutti in ufficio con una cravatta al collo”, disse Bono a un’affollata cerimonia dei Grammy Award. E nessuno osò contraddirlo. “Quel giorno afferrai il senso alla mia carriera: aver evitato a qualche migliaio di persone la cravatta e la metropolitana alle otto del mattino”, specifica Sir Paul» (Poglio). «Lui è il pop, è il rock, è i Beatles, è la storia della musica, e quando sale in scena è sempre una grande festa. […] Andare a un concerto di Paul McCartney è come fare una visita al Louvre o agli Uffizi, si va ad ammirare l’arte, la più straordinaria e popolare arte del Novecento e, soprattutto, si va ad ascoltare il concerto che i Beatles non hanno mai fatto. […] McCartney, con John Lennon e da solo, ha scritto la colonna sonora della nostra èra, della nostra vita. […] La sua musica è arte, non nostalgia, le sue canzoni sono di sempre, non di ieri. […] McCartney è un monumento all’arte del pop, alla vitalità della musica, alla gioia di comunicare e stare insieme, celebrando il meglio della vita. E riesce ad accendere in concerto la magia del rock "come dovrebbe essere", quello straordinario insieme di sogni, amore, rivoluzione, avventura, passione e creatività che spesso diamo per morto ma che […] dimostra ancora di essere il ritmo del cuore di milioni di persone» (Assante) • «Non è mai diventato un lavoro vero e proprio. Lo adoro. Ti siedi e c’è un buco nero da cui tiri fuori qualcosa. Piccole cose, accordi, pianeti. E poi hai qualcosa dove prima non c’era nulla». «Mezzo secolo di canzoni, la militanza nel gruppo numero una della storia del pop, la comproprietà del repertorio più prestigioso e redditizio dell’ultimo secolo di musica, un patrimonio di mille milioni di euro; […] molti al posto suo si sarebbero blindati da decenni in una prigione dorata, a godersi i diritti d’autore. […] “Che idea! Non ho mai pensato di smettere, mai. Ci sono stati, è vero, momenti di grande pressione nella mia vita, ma la musica non c’entra, la musica non mi ha mai causato stress. […] Non c’è stato mai un momento in cui ho stentato a trovare l’ispirazione, in cui ho pensato: chissà se domani riuscirò a scrivere un’altra strofa o un altro ritornello? Le canzoni, al contrario, mi si affollano in testa: più ne scrivo, più me ne vengono”» (Videtti). «Quando ha un dubbio su un episodio dell’èra Beatles si confronta con Ringo Starr? “Sì, con risultati agghiaccianti. Le nostre conversazioni sul passato sono più o meno così: Ringo, ti ricordi quando John si lanciò in piscina dal primo piano di un albergo di Monaco? E lui: No, Paul, quel tuffo lo fece George un anno prima a Parigi. Non ci prenda per vecchi signori rimbambiti, ma il periodo Beatles, come intensità, vale almeno tre vite”. La metto alla prova: si ricorda come reagì Lennon la prima volta che gli fece sentire Yesterday? “Si mise a ridere, aggiungendo che gli sembrava una melodia già sentita. ‘Dici che potrebbe funzionare?’, fu la sua domanda. Per molti mesi il titolo provvisorio del pezzo fu Scrambled Eggs (uova strapazzate; ndr)”. Come erano i suoi rapporti con John nel dicembre 1980, quando venne ucciso dalla pistola di Mark Chapman? “John se n’è andato nell’unico periodo in cui i nostri rapporti erano più che buoni. Prima e dopo i Beatles avevamo litigato furiosamente su tutto. Nel 1980 riuscivano a parlare per dieci minuti senza sbattere giù il telefono. All’undicesimo ci chiedevamo: ‘Adesso possiamo litigare un po’?’”. Essere un Beatles ha attutito i colpi della vita? “Per qualche tempo ho creduto che la mia posizione avesse il potere di anestetizzare le tragedie. Ma, crescendo, si impara a proprie spese che soldi e successo non mettono mai al riparo dalla vita. Quando una malattia s’è portata via Linda, la donna con cui avevo una complicità totale, non me ne è fregato niente di aver scritto Yesterday o Let It Be”. […] Sir Paul, come si sopravvive alla propria leggenda? “Non mi volto mai indietro e non rileggo i miei diari. Se mi fermo e penso a quante persone mi hanno detto che la musica dei Beatles gli ha cambiato la vita, allora mi viene un po’ d’ansia. Sentire oggi in radio canzoni di quarant’anni fa è qualcosa che va al di là di ogni immaginazione. In questo mondo tutto passa e va, i Beatles no. In quella musica c’è qualcosa che parla al cuore e alle orecchie della gente. E mi fa specie pensare che dietro tutto questo ci sia anch’io”» (Poglio).