Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2019
Biografia di Zeffirelli
Icona all’estero del gusto italiano, sensibilissimo e raffinato dandy, spigoloso e contraddittorio artista con una vis polemica da toscanaccio che riservava in egual modo al mondo dello spettacolo, alla politica e al tifo per la Fiorentina, Franco Zeffirelli se n’è andato ieri nella sua casa di Roma. Regista, scenografo e sceneggiatore, nella sua vita lunga 96 anni ha firmato centinaia di opere tra cinema, teatro di scena e musicale, bastonato da una critica a volte troppo severa, che gli contestava il suo perfezionismo calligrafico, il lusso nei costumi, oltre che la scelta passatista di temi avulsi dalla contemporaneità. Il regista aveva risposto, soprattutto negli ultimi anni, arroccandosi nei suoi affetti, i figli adottivi, Pippo e Luciano, e gli amici più stretti, dichiarandosi uno straniero in patria.
Fu allievo di Luchino Visconti, per cui allestì la scenografia di Troilo e Cressida (1949), dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Affiancò il maestro come aiuto regista ne La terra trema(1948) e Senso (1954), assieme a Francesco Rosi. I due giovani però presero strade completamente diverse: Rosi si dedicò al cinema di inchiesta, Zeffirelli si instradò verso una cifra romantica, melodrammatica, con ampio spazio per rifessioni sul cattolicesimo, fede che aveva abbracciato forse anche grazie all’influsso di Giorgio La Pira, suo istitutore in collegio.
Visconti fu per Zeffirelli molto più di un maestro. Fu il suo compagno di vita (per un periodo convissero nella villa di Visconti sulla Salaria), una figura carismatica e a tratti genitoriale (avevano diciassette anni di differenza). L’infanzia di Zeffirelli era stata funestata infatti dalla morte della madre, che perse da bambino, e dalla mancanza del padre, che lo riconobbe solo quando compì 19 anni. Fatti che lo condannarono a una fragilità endemica, che lo esposero al contrappeso di un’irritabilità di fondo, condita da reazioni eclatanti, e allo stesso tempo, al desiderio di tenerezza e sicurezza che trasponeva nelle sue opere. Visconti fu per il regista toscano croce e delizia, il maestro che lo prepararò al debutto dietro la macchina da presa con Camping del 1957 – commedia frivola con Nino Manfredi, Marisa Allasio e un giovanissimo Paolo Poli – e un’ombra ingombrante, che lo perseguitò, trasformandolo nel clone del suo nume tutelare, privo però della sua sostanza. Così tutti i meriti che Zeffirelli ebbe nel far accettare e amare sul grande schermo e al grande pubblico Shakespeare - La bisbetica domata nel 1967, Romeo e Giulietta nel 1968, Amleto con Mel Gibson nel 1990 – vennero annientati dall’accusa di ricorrere a un estetismo artificioso e rinascimentale, di amare spazi troppo ampi e sfarzosi, di creare scene come quadri, senza dare alcun risalto alla sua abilità di disegnatore, che traspariva negli schizzi preparatori. Nell’epoca de Le mani sulla città (di Rosi, appunto, del 1963), o della commedia all’italiana che derideva i difetti nazionali denudandoli, non si voleva tenere conto, perché le urgenze erano altre, che Zeffirelli si rifugiava ed era il prodotto della bellezza architettonica della città natìa. I l suo estro veniva declassato a mero talento scenografico, tanto che anche il suo documentario di mano neorealistica sull’alluvione, dal titolo Per Firenze (1966) con la voce narrante di Richard Burton, non ribaltò le sue sorti.
Il teatro gli fu meno nemico, soprattutto quello musicale (vedi l’articolo di Carla Moreni). E in quello di scena ebbe un periodo di fulgore negli anni Sessanta, quando diresse l’Amleto con Giorgio Albertazzi, recitato anche in inglese a Londra nel quattrocentesimo anniversario della nascita di Shakespeare; Chi ha paura di Virginia Woolf con Enrico Maria Salerno e Sarah Ferrati, e La lupa di Verga con Anna Magnani. L’amicizia con l’attrice romana, come quella con Burton e Maria Callas, cui dedicò Callas forever (2002), furono un lascito di Visconti. Li conobbe attraverso il compagno, ma poi ne divenne confidente e dimostrò una notevole capacità nel dirigerli, cifra dei grandi, riuscendo a riunire davanti alla macchina da presa la litigiossima coppia Burton-Taylor.
Nel 1972, quando girò Fratello sole, sorella luna, era già una star, soprattutto all’estero. Nel ripercorrere le vestigia di san Francesco fece emergere ancor di più la sua anima cattolica che lo portò, tre anni dopo, a firmare per la televisione la cerimonia dell’Anno Santo e poi il kolossal Gesù di Nazareth (1977), miniserie televisiva con Robert Powell nei panni di Cristo. Lo avrebbe seguito anni più tardi in una pellicola molto più cruenta e sanguigna, La passione di Cristo, il Mel Gibson che aveva interpretato per lui Amleto. Alla fine degli anni Ottanta cominciò un lento declino, almeno sul piano cinematografico. Il giovane Toscanini fu contestato a Venezia nel 1988 e ugualmente furono salutati con freddezza il suo pur elegante Jane Eyre (1996) e il parzialmente autobiografico Un tè con Mussolini (1999). Zeffirelli aveva però già imboccato la via della politica, che difficilmente si concilia con il mondo dell’arte, diventando senatore di Forza Italia nel 1994 e divenendo definitivamente inviso alla sinistra.
Sperava di poter cambiare le cose nella cultura e nell’ambiente, ma le sue proposte non andarono in porto, anche per le sue provocazioni, divisive nel suo stesso schieramento. Nella sua Firenze riuscì però a creare la Fondazione per le Arti e lo Spettacolo che porta il suo nome, dietro Palazzo Vecchio, in cui vi sono le testimoninanze della sua vita artistica.Rispetto alla sua infaticabile produttività, Zeffirelli ottenne pochi riconoscimenti: nessuno nei grandi festival, ma quattordici nomination agli Oscar, cinque David di Donatello e due Nastri d’argento. Fu però l’ unico regista italiano a ricevere il titolo di cavaliere dell’ordine dell’impero britannico dalla Regina Elisabetta nel 2004.
Aveva sbagliato epoca Zeffirelli ed è stato condannato dal suo carattere fumino e contestatore. Aveva precorso i tempi, convivendo con un uomo e dichiarandosi apertamente omosessuale prima che l’outing fosse blasonato anche dalla politica, ma poi cadeva in esternazioni autolesioniste, sostenendo, per esempio, la sua contrarietà ai movimenti gay. Si era cristallizzato nell’universo dell’infanzia, perché la sua era finita troppo presto, e aveva cercato di protrarla, riproducendola nell’incanto (e a tratti con sdolcinatezza) di un grande gioco scenico rigorosissimo, che, manifestato oggi come novità, avrebbe diversi sostenitori.