Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2019
Biografia di Francesco Saverio Nitti
Cento anni fa, nel giugno del 1919, in uno degli anni più difficili della storia italiana, l’anno della pace di Versailles e delle prime elezioni con sistema proporzionale, della impresa di Gabriele D’Annunzio a Fiume e dei primi sintomi del fascismo, Francesco Saverio Nitti diventava presidente del Consiglio. Fu breve e tormentata la vita di quel governo – circa un anno – seguendo i ritmi di una politica attenta più agli equilibri interni agli schieramenti parlamentari, ai gruppi, alle correnti, che ai problemi, spesso – come fu allora – drammatici di un Paese da governare.La brevità di quell’esperienza, il suo sostanziale fallimento, costretto come fu a muoversi tra contrasti difficilmente ricucibili tra le forze in campo, contrasti che correvano anche all’interno dei singoli partiti e che lasciavano intravedere il crollo non lontano dell’Italia liberale, in un quadro internazionale che la pace aveva reso quasi più complicato della stessa, devastante guerra che l’aveva preceduta, contribuirono a logorare nell’immagine popolare e poi nella storiografia una figura, quella di Francesco Saverio Nitti, alla quale gli italiani, anche nel momento in cui gli riconoscevano gli evidenti meriti intellettuali e politici, non riuscirono mai a guardare con simpatia. Sbagliando, ovviamente, come sbagliano sempre gli italiani quando, fidandosi di un intuito collettivo che si rivela il più delle volte superficialità, si affidano ad uomini roboanti più che autenticamente forti, tanto seducenti nelle promesse quanto amari nelle delusioni. E così facendo essi, gli italiani, si negano – pur desiderandola – una storia diversa da quella che poi li travolge.
Ricordare Francesco Saverio Nitti, oggi, significa, infatti, parlare di un altro, e diverso punto di vista della storia d’Italia. Non di una storia che è passata e che vale la pena, quasi come un riconoscimento obbligato, far rivivere per il tempo di un anniversario, ma di una storia che non c’è mai stata e che oggi, così disorientati come siamo tra tante strade che sembrano chiudersi e tante che dichiarano di volersi aprire, vale la pena di domandarsi – anche solo per il breve attimo di una celebrazione – se in essa non ci sia la strada su cui varrebbe la pena di incamminarsi.
Del resto Nitti fu assai più che il presidente di un governo di dodici mesi. Economista originale prima della guerra, capace di tracciare nei suoi libri e nella sue prime prove di governo il disegno di un intervento pubblico in grado di accelerare lo sviluppo industriale dell’Italia e particolarmente del suo Mezzogiorno, Nitti diventa dopo la guerra l’alfiere di un progetto di Stato liberale il cui fondamento sia, ancor più che il libero mercato, la democrazia economica, l’eguaglianza nella produzione del reddito ancor prima che nella sua distribuzione.
L’Europa è lo spazio nel quale, prima e dopo la guerra, egli colloca la sua riflessione e la sua azione politica. Ed eccolo, allora, cento anni fa, diventato presidente del Consiglio di un’Italia che pensa di aver perduto una guerra che invece ha vinto, ma soprattutto di un’Italia che (complice una guerra mondiale che ha annientato Imperi come la Germania, l’Austria, la Russia) si trova per la prima volta, e per una delle rare volte, della sua storia ad essere una “grande potenza” europea. Eccolo, dicevo, che a Versailles prova a convincere i tradizionali “grandi” del continente – il francese Clemenceau, l’inglese Lloyd-George – che non bisogna scrivere una pace di vincitori e vinti. Che l’economia europea e quella mondiale (conosce allora e diventa amico di un giovane e brillante economista che si chiama Keynes) vivono di frontiere aperte e di economie libere e prospere. Dazi, frontiere, limitazioni agli scambi, preparano la povertà e con essa la guerra. Non capiva, allora, Nitti, che se anche avessero voluto (e in realtà non volevano) né Clemenceau né Lloyd-George avrebbero potuto dargli ragione. Potentissimi, in apparenza, essi erano in realtà ostaggio delle opinioni pubbliche dei loro Paesi. Ed esse parlavano il linguaggio di società che avevano sofferto più di quattro anni, pagando un prezzo inaudito di morti e di sofferenze, del quale intendevano essere risarciti reclamando che chi aveva, ai loro occhi, scatenato quell’inferno, lo pagasse fino in fondo, più e più volte. Sequestrati da un circuito perverso della storia e della retorica, con gli Stati Uniti governati da un presidente che non amava l’Europa, isolazionista per orgoglio democratico (una nobile, ma non meno pericolosa variante dell’America first), gli alleati europei non potevano che isolare Nitti e il suo disegno di una pace che provasse ad essere l’ultima, senza più guerre all’orizzonte. E merita aggiungere che in quello sforzo Nitti includeva pure (e di ciò si è fino ad oggi parlato poco) un severo giudizio sulla fine dell’Impero ottomano e sulla infelice sistemazione della sua eredità: dal Medio-Oriente alle nazioni arabe del Mediterraneo.
Da quel momento i suoi libri avranno titoli intriganti e profetici: Europa senza pace, La decadenza dell’Europa, La tragedia dell’Europa. Nel mondo che ormai tutto intero, soprattutto dopo la crisi del 1929, corre verso la Seconda guerra mondiale, immaginando che una matassa fattasi così intricata si può sbrogliare solo con le muscolose cesoie delle armi, dall’esilio di Parigi a cui lo ha obbligato il fascismo, egli non smette di studiare, discutere con uomini delle più diverse condizioni e delle più diverse parti del mondo, di denunciare il progressivo avvicinarsi di una nuova catastrofe e di indicare le soluzioni che ancora sono nelle mani degli uomini di buona volontà.
Da dove traeva quella intelligenza, il coraggio per farlo sapendo che, probabilmente, sarebbe stato inutile, il coraggio di guardare al mondo che, comunque, avrebbe dovuto, dopo la catastrofe, ricominciare a vivere? Delle tante domande che potremmo voler oggi fare a Francesco Saverio Nitti, questa mi sembra la più toccante.